Il Far MidWest di “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri” dice tutto sull’America [CINEMA]
Crudo e grottescamente amaro, il nuovo film di Martin McDonagh ha fatto incetta di premi ai Golden Globe e ai BAFTA e si candida a sbancare i prossimi Oscar.
di Stefania Sarrubba
Martin McDonagh ci aveva abituati all’assurdità e ai finali sospesi a mezz’aria sul trapezio della vita già con In Bruges, con il suo circo belga di personaggi bizzarri. L’assurdo più vero della realtà stessa di Three Billboards Outside Ebbing, Missouri è portato all’estremo con personaggi altrettanto peculiari ma anche estremamente americani e archetipici, tant’è che portano la divisa. Da un lato, quella color kaki dei poliziotti della cittadina fittizia del Midwest, dall’altro, la tuta blu e la bandana di Mildred, una novella Rosie the riveter, una Maria piena di rabbia.
Una strepitosa Frances McDormand è Mildred Hayes, una Marge Gunderson di Fargo – ruolo che valse all’attrice americana il suo unico Oscar (per ora) – che ne ha viste troppe per restare in silenzio. La feccia umana che ha rapito, stuprato e ammazzato sua figlia adolescente Angela non ha ancora un volto, così Mildred pensa bene di ricordare alla polizia locale di fare il proprio dovere con i tre cartelloni pubblicitari del titolo, laconici e diretti allo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson), posizionati sulla strada dove quello stesso crimine si è consumato.
Ma la comunità si scaglia contro di lei, osteggiandola per la sua crociata, e difendendo a spada tratta il buon Willoughby. Particolarmente tenace è l’ostilità del poliziotto Dixon (incredibile Sam Rockwell), tanto odioso quanto assolutamente incapace nel suo lavoro, almeno finché non scopre una vocazione insperata nel momento in cui viene privato del distintivo.
Spacca l’America in due, Three Billboards: autorità inette che stentano a prendere posizione e cittadini che provano a farsi giustizia da soli, una giustizia che ha il sapore della cieca vendetta. Le conseguenze disastrose di questo scontro sono tragiche e divertenti, come tutto l’umorismo che procede dal grottesco che è un po’ la cifra di McDonagh, già candidato all’Oscar per la sceneggiatura di In Bruges e in lizza per quella di Tre manifesti.
Nel mezzo di questa dicotomia, tanta, tantissima, forse troppa carne al fuoco: femminicidio, stupro, abuso di potere, razzismo, omofobia… non c’è un argomento controverso che non venga toccato con sagacia.
La scena di Dixon che nota i manifesti per la prima volta dice tutto in pochi secondi: il poliziotto insulta l’attacchino messicano e minaccia di arrestare quello nero.
Allo stesso modo, significativo l’interrogatorio di Willoughby a Mildred dopo che questa ha trapanato il pollice dell’insopportabile dentista, il quale la denuncia prontamente. “È la mia parola contro la sua,” dice la donna. “Come in tutti i casi di stupro, solo che stavolta la ragazza non è quella che ci rimette.”
Sulla scia di #MeToo e di #Timesup, Three Billboards non potrebbe essere più sul pezzo di così, tanto che verrebbe da chiedersi se McDonagh abbia firmato il film dell’anno o la paraculata del secolo, ora che il sociale batte il sentimentale agli Oscar.
In ogni caso, c’è da dire che la trovata dei cartelloni, ispirata a un vero caso di omicidio irrisolto del 1991, si è già erta a generale simbolo di protesta ed è stata utilizzata per richiamare l’attenzione sull’incendio alla Grenfell Tower di Londra, per cui ancora non è stato fatto un colpevole tra le istituzioni.
Nonostante alcune forzature che provano a far quadrare il cerchio – l’uomo misterioso che entra nel negozio di Mildred, le lettere premonitrici di Willoughby – Three Billboards Outside Ebbing, Missouri è da manuale nel dimostrare che quasi mai il cerchio si adatta alla quadratura, che poche volte la vita si piega alle coincidenze. Raramente l’universo è così pigro, direbbe lo Sherlock di Benedict Cumberbatch e avrebbe ragione qui nel Far West di Ebbing, Missouri.
Lo dimostra il momento in cui Mildred pianta dei fiori proprio sotto i cartelloni, come questi fossero la tomba di Angela, un simulacro di qualcosa che non c’è più, che solo quei manifesti possono tenere in vita. China sui vasi, la donna nota un cervo che le si avvicina, una scena toccante se non fosse per un CGI troppo visibile da essere di disturbo, che non stupirebbe se fosse una scelta voluta da McDonagh. Il cervo apre l’unica crepa nell’aria granitica di Mildred. “Sei carino, ma non sei lei,” dice, tra le lacrime, all’animale, ribadendo di non credere alla reincarnazione.
Come si scende a patti, allora, con una sofferenza che non può trovare sfogo? Con la violenza che lascia il passo all’accettazione, nel migliore dei casi. Basta tendere l’orecchio a Buckskin Stallion Blues nelle sue due versioni, che si aggiungono alla splendida colonna sonora folk composta da Carter Burwell. La prima che sentiamo all’inizio del film è l’originale di Townes Van Zandt, dura, rauca, dolorosa. La seconda, una cover di Amy Annelle che accompagna l’ultima, irrisolta scena, è dolce, eterea e riconciliata.
Le regole sociali cui ci è comodo e rassicurante sottostare ci fanno credere che sarà quest’ultima canzone a prevalere, che il bene vincerà sul male, ma con McDonagh, come nella vita, non si può mai essere certi. Non è forse questo il bello?