Manlio Boutique

La regista britannica firma una straniante commedia di stampo teatrale, dove un cast formidabile si incontra e si scontra nel ricordo di ideali estinti.

di Luca Taiuti

La locandina

La locandina

Carnage di Roman Polanski (2011), Cena tra amici di Matthieu Delaporte e Alexandre de La Patellière (2012), Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese (2016), The dinner di Oren Moverman (2017): sono solo alcuni titoli di spicco di quello che è stato uno dei generi più proficui (e forse abusati) degli ultimi tempi, che potremmo definire la “commedia d’appartamento”. Una cena tra amici, un annuncio imminente, segreti in procinto di essere svelati, e un gioco teatrale che porta un crescente pathos a diventare l’elemento catalizzatore di una critica morale, spesso sociale, a volte politica. A questo filone, che parte da lontano, basti pensare a opere che, pur non svolgendosi in un solo ambiente avevano un simile svolgimento come Big Night di Stanley Tucci e Campbell Scott (1996) o Festen di Thomas Vinterberg (1998) e tanti altri, decide di aderire con The party la sessantottenne britannica Sally Potter . Nome meno noto alle grandi platee ma esponente di rilievo di un cinema indipendente d’Oltremanica, la regista si è contraddistinta per opere come Orlando (1992) e L’uomo che pianse (2000) e Ginger & Rosa (2012), suo ultimo film.
La festa che si svolge per celebrare la nomina della padrona di casa Janet (Kristin Scott Thomas) come ministro nel governo ombra (laburista) vede, oltre suo marito dipendente dall’alcool e dall’ascolto di vecchi vinili Bill (Timothy Spall), cinque invitati: la vecchia amica April (Patricia Clarkson) e il fidanzato con cui è in completo astio Gottfried (Bruno Gan), la coppia lesbica composta da Martha (Cherry Jones) e Jinnye (Emily Mortimer) in procinto di partorire tre gemelli, il misterioso e nervosissimo Tom (Cillian Murphy), quasi sull’orlo di una crisi di nervi, e una figura esterna solo nominata.
Allontanandosi completamente da quei canoni che avevano sempre fatto del suo cinema qualcosa di misuratamente british, delicato e levigato, la regista affida tutto il potere del suo film alla drammaturgia (sempre sua) di fortissimo stampo teatrale. Una casa con giardino in Inghilterra diventa luogo d’incontro e scontro, come un ring dove si svolge un tutti contro tutti, in una collisione tra 7 caratteri roventi in preda a una progressiva deteriorazione delle loro relazioni.

Kristin Scott Thomas nel ruolo di Janet

Kristin Scott Thomas nel ruolo di Janet

Ogni personaggio è uno stereotipo di una società in crisi che si fa espressione di una decadenza collettiva e politica, e forse di uno sfogo generazionale della stessa Potter. Ci sono tutti: l’idealista compagna di lotte femministe-emancipazioniste delusa, l’uomo votato alla causa verde, alle massime fatalistiche e alla medicina olistica, la coppia lesbica alle prese con l’attesa di tre gemelli e di una differenza di età alta, il professore in balia dell’alcool e di un matrimonio fallito e il cocainomane che è la vera scheggia impazzita del puzzle. E poi c’è un personaggio che non vedremo mai, una sorta di Godot, al cui non-arrivo culminerà la follia di un gioco al massacro, dove il passaggio da un’assurdità all’altra è solo una lenta peregrinazione verso lo shock definitivo. Se le interpretazioni di tutti i membri del cast, guidate da una direzione corale che detta ritmi incalzanti, sono le espressioni imprescindibili della costruzione su cui l’opera si regge e l’espediente attraverso cui incuneare una critica precisa, ciò che sorprende maggiormente della ritrovata regia di Potter è senza dubbi la scelta estetica di un bianco e nero anacronistico della fotografia di Aleksei Rodionov, e di una camera a mano ondeggiatrice che guarda timidamente alla snoopy cam alla maniera di Lars von Trier, e di alcuni piani obliqui. Tutto assurdo, rapido e straniante, si dilegua, e resta di quest’opera il fortissimo segno della sua capacità di coinvolgimento, seppur si svolga pressoché in un solo ambiente, grazie ad uno black humor portato all’estremo e denso di significati, tra l’amore e la morte, la malattia e l’infedeltà, la follia e la ragione. Un esperimento anti-sperimentale nel suo non proporre nulla che si configuri come novità assoluta e che non sia stato almeno già parzialmente esplorato, eppur una follia pura, di quelle, purtroppo, sempre più rare in questo cinema.

Print Friendly

Manlio Boutique