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Stasera, in contemporanea, ci saranno la premiazione dei migliori film dell’anno passato e lo spoglio delle schede delle elezioni italiane. Cosa guardare, dove e perché.

di Stefania Sarrubba

Oscar o elezioni?

Oscar o elezioni?

Questa notte, i cinefili dello stivale con una coscienza politica sono chiamati a prendere una decisione coraggiosa, beffati dal fato e messi di fronte alla dura, durissima scelta tra il seguire due appuntamenti imprescindibili: le elezioni italiane e gli Academy Awards.
Da un lato, una pomposa, autocelebrativa lotta all’ultimo sangue in seno a una lobby che non è più in grado di rappresentare la realtà, composta da comici, vecchi maiali e donne oggettificate, tutti con stipendi da capogiro, vizi bizzarri e al limite della legalità, che fanno del culto della personalità il proprio dogma. Dall’altro, gli Oscar.
Incredibile che, in appena settant’anni, si sia già al sessantacinquesimo governo. Vista la velocità del turnover a Palazzo Chigi, tempo un altro decennio e raggiungeremo il numero di edizioni degli Academy Awards, iniziati nel 1929. Un anno buio, quello, per l’Italia, ma non così buio evidentemente, se qualcuno ne ha nostalgia e qualcun altro permette a quei nostalgici anche solo di sognare di sedere in parlamento.
I due eventi mediatici, a ben pensarci, non sono poi tanto diversi. Ci sono fazioni che supportano l’uno o l’altro candidato, che sia a premier o a Miglior Film, che odiano in particolare un nome o un titolo, che non si capacitano di come sia possibile che quello, ma sì, proprio lui, sia ancora in lizza.
Lunghe dirette televisive vengono organizzate da professionisti del settore, a cui viene affidato il difficile compito di guidare gli ignari telespettatori nella notte più stancante dell’anno. La maratona Mentana su la7, ormai un punto fermo per il telespettatore medio che ci tiene a mostrare di intendersi di politica, e la diretta Sky (in chiaro su Tv8) con il critico Gianni Canova e i giornalisti Francesco Castelnuovo e Denise Negri, più un parterre di ospiti vari con un livello di competenza cinematografica pari a quella politica di Di Maio.
Entrambi gli eventi, inoltre, sono uno specchio sociale. Aspettative, speranze, sogni e frustrazioni sono tutti riversati nella lunga attesa dell’annuncio finale che, una volta incoronato il vincitore, dirà qualcosa di importante sullo status quo.
Dopo il governo tecnico di Paolo Gentiloni, in seguito alle dimissioni post-referendum di Renzi, questo potrebbe essere l’anno del populismo d destra, seguendo un preoccupante vento che altrove in Europa tira già da un po’ e che trova terreno fertile nel malcontento generale.
Sarebbe bello se, come fece la coppia Faye Dunaway e Warren Beatty lo scorso anno, annunciassero il vincitore sbagliato. Chissà se Salvini sarebbe in grado di mostrare lo stesso aplomb dei produttori di La La Land a vedersi strappare la statuetta all’ultimo dai neri gay di Moonlight.
Di certo, il candidato della Lega pare intendersene di cinema, ora che porta avanti la battaglia contro il possibile coming out di Elsa di Frozen. Meglio non chiedergli, allora, cosa pensa di Get Out, l’irriverente commedia horror che gioca sugli stereotipi razziali e candidata a sorpresa per Best Picture. Almeno Chris, il protagonista, è solo nero, ma ancora eterosessuale. Possiamo tirare un sospiro di sollievo.
All’opposto della Lega, all’estrema sinistra, troviamo la coalizione Potere al Popolo. Rivoluzionaria, anticapitalista e pronta a prendersi il potere dal basso per metterlo nelle mani dei bravi cittadini impegnati, ma abbandonati dalle istituzioni.
Contenutisticamente è un po’ il Tre Manifesti a Ebbing, Missouri di queste elezioni, con la piccola differenza che Three Billboards vincerà, mentre Potere al Popolo ha le chance di Lady Bird, cioè nulle. Un peccato in entrambi i casi perché si tratta di un bell’esperimento, un esperimento per cui non si è ancora pronti, forse, ma che certamente non merita la vittoria.

The Dolby Theatre

The Dolby Theatre

Nel mezzo di questo continuum, a Roma come al Dolby Theatre di Los Angeles, una moltitudine di volti vecchi e nuovi e nessuno che sia veramente degno. Sono quasi più emozionanti e di intrattenimento le elezioni, ormai.
D’altronde, l’ultima vera grande notte degli Oscar fu quella del 2015, l’edizione delle tre B. Tra i candidati a Miglior Film, Boyhood, Grand Budapest Hotel e Birdman, che vinse. Quello sì che era uno scontro tra titani, impensabile quest’anno dove, per mancanza di materiale, hanno candidato The Shape of Water, l’ennesima stucchevole, prevedibile reinterpretazione della love story à La bella e la bestia, un Avatar durante la Guerra Fredda, un Twilight recitato meglio.
Da quell’ultimo, glorioso anno in poi, tanti nomi che non restano impressi, esattamente come quelli dei ministri dei governi tecnici italiani succedutisi nello scorso decennio.
Sebbene simili, tuttavia, una piccola differenza tra gli Oscar e le elezioni italiane pare esserci. In una dinamica di assunzione delle responsabilità e di strenua lotta alle molestie sessuali nell’industria cinematografica, innescata dallo scandalo Weinstein, Casey Affleck romperà la tradizione per cui il vincitore della statuetta a Miglior Attore Protagonista dell’anno precedente premierà la Miglior Attrice di quest’anno. L’attore non si presenterà sul palco a causa del suo coinvolgimento in due cause per molestie sessuali, entrambe chiuse con un accordo segreto. E, qualora l’avesse fatto, non ci sono dubbi sul fatto che sarebbe stato contestato aspramente.
Mentre in Italia questo concetto fa ancora fatica ad attecchire, e quindi ci ritroviamo per l’ennesima volta il condannato re del bunga bunga Silvio Berlusconi tra i candidati, Hollywood sta finalmente imparando che non si può scindere personaggio e persona, pubblico e privato. Vuoi vedere che proprio quei megalomani, strapagatissimi attori americani possono insegnarci qualcosa?

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