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Guillermo del Toro firma una poetica storia d’amore tra individui di mondi diversi, contrastata dalle autorità, un puntino nel mastodontico scenario di una più profonda spaccatura politica. Superfluo chiedere se ricorda qualcosa di già visto. 

di Stefania Sarrubba

Una scena del film

Una scena del film

The Shape of Water, l’ultima fatica di Guillermo del Toro, affonda le sue radici in un compost scomposto di riferimenti culturali e cinematografici da cui attinge a mani basse, di cui si nutre parassiticamente per poi risputare un prodotto finito comodo, rassicurante, prevedibile, infiocchettato e confezionato nello stile etereo e favolistico del regista messicano de Il Labirinto del Fauno. Un prodotto, La forma dell’acqua, che vince l’Oscar al Miglior Film, un premio che diremmo forse immeritato se il giudizio dell’Academy avesse ancora un minimo di valore, oltre che di senso.
Siamo a Baltimora nel 1962. La muta inserviente Elisa Esposito (graziosa e tosta Sally Hawkins, capace di reggere un film traballante senza dire una parola) lavora in un edificio governativo dove vengono condotti esperimenti che potrebbero far pendere l’ago della bilancia della Guerra Fredda verso gli Stati Uniti. La sua bolla d’isolamento forzato, che ricorda la routine di Amélie Poulain, è sporadicamente interrotta dall’amica e collega Zelda (Octavia Spencer, tristemente ridotta a un cliché di lavoratrice nera tutta fianchi e mossettine) e dal vicino di casa, segretamente gay, Giles (Richard Jenkins, in una performance umana e toccante).
Contro questo tris di buoni, si schierano altrettanti cattivi del laboratorio: il corrotto, pomposo, crudele Colonnello Strickland (Michael Shannon), a capo del team di analisi; il generale Hoyt (Nick Searcy); il Dr. Robert Hoffstetler (Michael Stuhlbarg, esiste un film candidato quest’anno in cui non figuri nel cast? Spoiler, la risposta è no). La lotta tra bene e male è un contrasto dapprima silente, che si fa più acceso quando il laboratorio ospita e analizza una misteriosa creatura pescata nelle acque di un fiume del Sud America. Si tratta di un anfibio umanoide con cui Elisa intreccerà una relazione particolare, fatta di gesti e rituali che porteranno le due solitudini a unirsi contro il mondo, come è stato prima in una miriade di film, tra cui Avatar e soprattutto Splash – Una sirena a Manhattan, che mostra preoccupanti punti di contatto con questa pellicola.
La creatura di The Shape of Water è il perno di interessi e sentimenti che porteranno ad azioni coraggiose e sconsiderate. La interpreta Doug Jones, l’attore-mimo meno apprezzato di Hollywood e già fauno di del Toro, capace di fare tutto quello che fa Sally Hawkins, ma sotto un pesante strato di trucco e protesi. Il suo personaggio è un omaggio a Il mostro della laguna nera, horror sci-fi cult degli anni Cinquanta che del Toro ha visto da bambino, e al sovietico Amphibian Man del 1962.
Pare che del Toro volesse girare il suo film in bianco e nero, ricalcando ancor più pesantemente l’immaginario di quegli anni, incontrando, però, l’opposizione della casa di produzione. Così, il regista ha deciso di ritagliarsi un momento in bianco e nero, una scena dolorosamente imbarazzante in cui Elisa e il mostro ballano in una fantasia à la La La Land, ma peggio, molto peggio.

Una scena del film

Una scena del film

Il cinema entra nel film di del Toro in maniera piuttosto esplicita e didascalica, con la vera sala finemente decorata che si trova al di sotto dell’appartamento della protagonista. Il cinema è il luogo dove probabilmente si svolgono gli unici momenti davvero poetici dell’intero film e che spiegano l’amore di del Toro per la settima arte e per questa storia che, seppur banale e dal finale intuibile, tanto teneva a raccontare. Il resto non è che un’accozzaglia di elementi-omaggio che la poesia non basta a legittimare, aggravati dall’accusa di plagio mossa al regista, presunto colpevole di aver copiato l’opera teatrale Let Me Hear Your Whisper dell’autore Paul Zindel, in cui un’inserviente stringe un rapporto profondo con un delfino imprigionato in un laboratorio.
Un’occasione sprecata e deludente, The Shape of Water, seppur apprezzabile il lavoro fatto sulla comunicazione e sul suo fallimento. Tutti i personaggi di The Shape of Water sono soli e l’incomunicabilità di cui sono vittime trascende l’effettiva impossibilità di parlare della protagonista, toccando più livelli: personale e interpersonale, nei dialoghi tra Elisa e il mondo esterno, ma anche tra Zelda e il suo irascibile marito, tra Giles e il cameriere della tavola calda da cui è attratto, tra Strickland e sua moglie. Non solo, l’incomunicabilità abbraccia anche le dimensioni nazionale e sovranazionale, in uno dei più grande esempi di mancata comunicazione della storia, la Guerra Fredda.
Forse, la pellicola stessa è un caso di comunicazione inefficace tra del Toro e il pubblico che non riesce ad appassionare e coinvolgere fino in fondo con un film di cui proprio non sentivamo il bisogno. La forma dell’acqua, dopotutto, non prevarica né si impone, ma, come insegnano i libri di scienze, si adatta al recipiente che la contiene, usando le forme altrui per essere. Peccato.

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