“Malagrazia”, la capacità umana di resistere ad una catastrofe
La vertigine emotiva di un’umanità dilaniata dalla paura di restare sola con sé stessa prende corpo in quello di due fratelli orfani che agiscono per ricreare la propria storia familiare resistendo al male.
di Maria Anna Foglia
Quando il pubblico del TRAM di Napoli dal foyer entra ad accomodarsi in sala, già prima di prendere posto è accolto da una sequenza di suoni che creano uno stato di allarme: è l’architettura del suono di Stefano De Ponti, infatti, che dà vita alla narrazione sonora – preludio e accompagnamento di quella drammaturgica e che rimanda ad una situazione di emergenza – di Malagrazia, lo spettacolo ideato e diretto da Giuseppe Isgrò con l’assistenza di Edoardo Barbera, per la drammaturgia di Michelangelo Zeno, ospitato nello spazio di via Port’Alba dal 15 al 18 marzo .
In scena, scura e scarna, Daniele Fedeli e Edoardo Barbone, di spalle e intenti in un atto autoerotico. Sono – come scopriremo poi dal loro frenetico interloquire – Bastiano e Carmelo detto Melo. Due fratelli, due modi di essere, l’uno sfrontato e superbo, l’altro docile e indifeso che danno vita ad una continua tensione sia verbale sia corporea che altro non è che il loro modo di reagire a una catastrofe (una calamità naturale? Una apocalisse?). A corpi che saltano, fanno balzi, si incontrano, si scontrano corrisponde un profluvio di parole che culmina in brevi e forti momenti di silenzio che aiutano lo spettatore a catturare i momenti topici della messinscena: la ricerca ostinata della grazia a dispetto della morte che agisce “a ciclo continuo” (come ripeteranno più volte), la presa di coscienza della loro condizione di nuovi creatori intrisa di paura e coraggio fino poi alla palingenesi, quella rinascita tanto inseguita e voluta.
Isteria, urgenza, lacerazione esplicano il registro modale di Bastiano e Melo, gli attori che sanno ben rendere in scena, con la parole, il corpo e l’interazione, le epifanie dei loro stati d’animo.
I due giocano ad inventare una vita oltre la morte che è lì, fuori dal loro rifugio (continuo è il rimando a quello che c’è all’esterno); si impegnano a costruire e ricostruire continuamente scene di una normale vita quotidiana (radersi, preparare il pranzo, impegnarsi nel lavoro) non senza segni di parossismo per rappresentare la ricerca sfrenata, ossessiva e compulsiva della via che possa permettere l’uscita dal bunker nel quale si trovano – e quindi da un mondo buio, senza luce e senza nemmeno possibilità di luce (significativa l’assenza di finestre che attanaglia costantemente Melo) – e raggiungere finalmente l’esterno, la natura “dove le farfalle si mangiano i calabroni”. È questa la grazia, chirurgicamente cercata, intravista e individuata in un modo affannoso e disperato che sa condurre inevitabilmente il pubblico in una voragine vertiginosa (la stessa che vivono i due fratelli) che però non risucchia del tutto ma lascia comunque una speranza: “Noi ci possiamo ancora salvare” si dicono i due fratelli.
E in effetti resistono: l’uno con la superba sfrontatezza che lo caratterizza, l’altro con la sua delicatezza che mette in risalto la fatica dell’uomo, del singolo e della collettività, ma anche dell’artista nel fare continui tentativi di sopravvivenza per afferrare e affermare la Bellezza e il Sublime.
Compulsivo è il rovistare nella loro storia familiare, da cui deducono l’importanza di adottare l’atteggiamento del padre “che dipingeva i volti dei morti”, ovvero di chi sa e riesce a guardare le cose in faccia nella loro cruda verità per sopravvivere; ma anche, al contempo, la fuga liberatoria da quella stessa famiglia verso una creazione ex novo, una rinascita che sappia innalzare dalle rovine.
Certo, la realtà è fatta di paura così come la difficoltà deriva dall’odore di morte e di sfacelo, però con l’amore si può trionfare, a patto che ci si accanisca “con la vita come si fa con una donna” e allora occorre affilare la realtà – non a caso i rasoi sono oggetti di scena carichi di significato –, limarla sino a giungere alla nudità, la medesima che a un certo punto gli attori rendono sul palco, ormai spogli di vestiti e forse di paure, pronti a divenire nuovi creatori.
E se ciò è quanto si consuma sull’assito, non meno significativo è il ruolo che gioca il luogo che accoglie questo lavoro giunto dalla Sicilia: dopo aver varcato la soglia di un antico cortile del centro storico della città, infatti, c’è una discesa da compiere per arrivare al teatro e quindi una risalita – a fine spettacolo – per riemergere a nuova vita con determinate consapevolezze, e il percorso ecco allora sembrare richiamare l’iter compiuto dall’attore e lo spettatore di immersione nel ventre teatrale e poi riemersione, in una perfetta coincidenza tra quello fisico e quello esperienziale.
Teatro Tram
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