Il lavoro del Teatro Bellini nel racconto di Gabriele Russo [INTERVISTA]
Partendo da L’ultimo Decamerone, in scena fino al 6 maggio, il regista dello spettacolo e consulente artistico del teatro, parla del riconoscimento Tric, della Factory e del progetto artistico della sala napoletana di via Conte di Ruvo.
di Antonella D’Arco
A pochi giorni dal riconoscimento della qualifica di Tric (Teatro di rilevante interesse culturale), abbiamo intervistato Gabriele Russo, consulente artistico del Teatro Bellini di Napoli, in scena, come regista, ancora fino al 6 maggio, con L’ultimo Decamerone. Lo spettacolo, che propone una riscrittura originale di Stefano Massini, dall’opera di Boccaccio, è una co-produzione tra il Bellini e il Teatro San Carlo, quest’ultimo coinvolto nella messinscena con il corpo di ballo della sua scuola, la prima in Italia e la più antica in Europa.
Partendo dal racconto delle collaborazioni che hanno permesso la realizzazione dello spettacolo, Gabriele Russo ha risposto alle nostre domande anche in merito al costante lavoro svolto dal teatro Bellini, realtà trasversale, apprezzata e riconosciuta pure dagli addetti ai lavori, in relazione alla città, al pubblico e ai giovani che intraprendono la strada del teatro.
L’ultimo Decamerone: come sono nati lo spettacolo e le collaborazioni con il Teatro San Carlo e il drammaturgo Stefano Massini?
La collaborazione con il Teatro San Carlo non è nata di punto in bianco. Venivamo già da piccole collaborazioni significative che poi hanno aperto la strada a una vera e propria co-produzione. Ognuno dei due teatri ha delle specificità, il Bellini per quanto riguarda la prosa, mentre il Teatro San Carlo ne ha diverse: il canto, l’opera lirica, etc.; però in questo caso, d’intesa con la sovrintendente Rosanna Purchia, dovendo interagire e lavorare con la prosa, abbiamo pensato che la cosa più opportuna sarebbe stata quella di utilizzare il corpo di ballo.
Da qui abbiamo cominciato a ipotizzare cosa poter fare. Poichè l’operazione era di per sè complessa, io, in quanto regista, avevo bisogno di un testo che avesse in sè una frammentarietà e non l’unicità narrativa di una storia che ha un inizio e una fine. In questo senso il Decamerone, mi sembrava si potesse ben prestare ad un’ipotesi del genere e a una contaminazione di generi.
Scelto il testo si è posto il problema di chi avrebbe dovuto riscriverlo. E mi è parso che Stefano Massini, che già ospitavamo in teatro, con due suoi lavori –L’ora di ricevimento e la versione teatrale de Il nome della rosa di Umberto Eco- fosse adatto, anche per provare a completare il “viaggio” con Massini che si percorre nella nostra stagione; nel cartellone che componiamo, infatti, tendiamo a creare una struttura che abbia all’interno una sua coerenza e dei percorsi che possano essere un focus su un autore, piuttosto che su un attore. Abbiamo, quindi, contattato Massini e chiesto se fosse interessato a questa riscrittura. E lui si è appassionato al tema, consegnandoci questo testo che è appunto L’ultimo Decamerone.
Arancia meccanica, Qualcuno volò sul nido del cuculo e Il giocatore fanno parte della cosiddetta “trilogia della libertà”; anche L’ultimo decamerone farà parte di un percorso artistico più ampio, come è stato per i precedenti lavori?
Non credo farà parte di una trilogia o di una tematica unica. Mentre nella “trilogia della libertà” il legame forte, tra gli spettacoli, era rispetto al tema della libertà, affrontato nei diversi tre testi; invece L’ultimo Decamerone fa parte di un percorso personale che trova punti di unione con quanto ho messo in scena precedentemente. Magari il legame è meno visibile nel tema, ma più concreto sul senso, ad esempio con il sottotesto del Tito Andronico (riscrittura di Michele Santeramo, con la regia Gabriele Russo nell’ambito del Glob(e)al Shakespeare). Direi che è un legame che insiste sul senso del teatro e sul lavoro dell’attore, sul dentro-fuori, sulla narrazione e sul recitare, ma anche sull’essere un pò condannati a recitare e a narrare.
Da pochi giorni il Teatro Bellini di Napoli ha ricevuto il riconoscimento della qualifica di Tric. Un commento. E quali novità comporterà questa qualifica nell’indirizzo intrapreso dal teatro?
È un riconoscimento che ci rende molto contenti. Ed è un riconoscimento che, sebbene sia in relazione al progetto di ciò che faremo nei prossimi tre anni, credo sia anche conseguenza di quanto fatto nel precedente trienno. Per cui, avendo già lavorato in una direzione che potesse somigliare o essere quella di un Tric, io non parlerei di novità, ma piuttosto parlerei di un consolidamento e di una continuità del lavoro svolto, mirato a innalzare l’asticella dell’offerta, ogni anno qualitativamente migliore e diversificata. Per questa ragione cerchiamo di fare un teatro che non abbia una connotazione esclusivamente partenopea, pur tenendo presenti e partendo dalle radici del luogo in cui siamo. Vogliamo dare un respiro culturale più ampio, non solo legato al campanilismo e al territorio, perchè il pubblico possa conoscere e usufruire di un repertorio il più vasto possibile.
Qualche tempo fa in un’ intervista rilasciata a “La Repubblica” Angelo Curti di Teatri Uniti ha dichiarato: «Per ora il Bellini fa il vero lavoro di teatro stabile». Come commenta questa dichiarazione?
Mi fa piacere che addetti ai lavori della qualità e della storia di Angelo Curti riconoscano il lavoro qualificato e l’impegno culturale profuso dal Teatro Bellini. E sono felice che ci sia una parte della città che ha un peso nella storia del teatro locale, nazionale e internazionale che guardi a noi con positività. Che poi il nostro lavoro sia sostituto del nazionale o svolga quel ruolo, non so dirlo e non m’interessa. A me interessa che il teatro funzioni in termini assoluti; mi augurerei che il nazionale formasse pubblico; che noi formassimo pubblico per il nazionale o per i teatri più piccoli etc.; perché da soli è molto più difficile ampliare la platea degli spettatori e far conoscere spettacoli nuovi. Ma per fortuna non siamo da soli, c’è il continuo lavoro di tutti i teatri, anche di quelli più piccoli e poi di tante compagnie di frontiera che cercano di sensibilizzare un pubblico nuovo. È un lavoro non semplice, anche perché chi fa teatro ha degli “strumenti contro” – quali quelli della comunicazione e dei media -, non nel senso che sono contro il teatro, ma nel senso che sono talmente alternativi e accessibili a tutti che determinano una maggiore difficoltà ad attrarre le persone e a far capire che andare a teatro è, anche, stare due-tre ore fermi in una poltrona ad ascoltare qualcuno. Ecco forse non è difficile il teatro, è diffcile farsi ascoltare.
In questi termini il teatro mi sembra il luogo che, veramente, racconta quanto una società funziona o meno, quanto è in crisi o meno; forse se è un pò in crisi il teatro è in crisi l’uomo e se è in crisi l’uomo è un pò in crisi il teatro.
Oltre che al pubblico, il Teatro Bellini è attento alla formazione dei giovani teatranti. In cosa consiste l’offerta formativa della Bellini Teatro Factory, e in cosa si distingue rispetto a un’ accademia di teatro più tradizionale?
Quando si parla della Bellini Teatro Factory si parla di un’accademia vera e propria, con frequenza quotidiana che richiede il massimo impegno e la massima presenza da parte degli allievi. Quello che gradualmente stiamo cercando di fare con Costanza Boccardi, insieme alla quale dirigo, per aspetti diversi, la factory, – dico gradualmente perché, benchè quella del Bellini sia un’accademia trentennale, è una scuola totalmente gratuita per chi vi prende parte e che non riceve finanziamenti, fattore che comporta non poche difficoltà nel realizzare tutto quello che vorremmo – è cercare di consolidare la sua attività, migliorarne l’offerta e farla crescere. Riscontriamo che la maggioranza degli attori di origine campana, spesso la parte più talentuosa, curiosa e aperta è costretta ad andare a studiare fuori Napoli. Ecco sarebbe ora che invece qualcuno da fuori cominciasse a pensare di venire a studiare qui, da noi.
E la Bellini Teatro Factory, oltre a ragionare come un’ accademia che di base ha una didattica canonica, fa in modo che gli allievi si percepiscano e percepiscano il trienno di studi un pò come se fossero una compagnia teatrale. Per questo motivo è diminuito il numero degli allievi, sono state inserite le materie di drammaturgia e di regia e una sezione musicale in cui si studia la musica applicata al teatro e al cinema. Tutto questo è volto a cercare di creare un gruppo autosufficiente. Ad esempio facciamo in modo che gli allievi scrivano dei testi nuovi e li mettano in scena, in uno spazio assolutamente libero e autogestito, sotto la guida e il tutoraggio degli insegnanti. In questo modo gli allievi hanno degli obiettivi concreti, pratici da portare a termine e lavorano sempre o quasi sempre su progetti specifici e d’insieme.
Si può dire che accanto a una didattica tecnica, cerchiamo di costruire un’attitudine alla creatività.
Come artista, regista e consulente artistico di un teatro, in che direzione sta andando il teatro e in che direzione dovrebbe andare il teatro, oggi?
Come consulente quello che riscontro è che è aumentata l’offerta in un modo esponenzionale, e con offerta intendo le proposte artistiche delle compagnie e dei teatri. È un dato che mi sembra che abbia degli aspetti molto positivi, perché corrisponde all’aumentare di un rinnovato fermento intorno al teatro. Aumentano le collaborazioni, anche e soprattutto tra le realtà più piccole, e questo genera movimento. Dall’altra parte il contraltare è che tutta questa proposta non può trovare una rispondenza specifica, per cui molti degli spettacoli prodotti, anzi la maggioranza, rischiano poi di morire. E da regista credo, invece, fortemente che si debba far in modo che gli spettacoli non muoiano, perchè il teatro è una materia davvero troppo complessa e viva perchè si realizzi in sole tre repliche. È nelle repliche che lo spettacolo assume un altro respiro, diventa sempre più degli attori e viene innaffiato di vita, di quella vita, appunto, che solo gli attori possono dare.
Quindi, in che direzione dovrebbe andare il teatro, oggi? Verso la qualità, ma cercando di non far morire tutto quello che di buono sta nascendo.