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Emma Dante firma la regia del dramma euripideo alla ricerca dell’anima che si nasconde dietro al corpo forzuto di un eroe, per portarne in luce la fragilità terrena.

di Ileana Bonadies

Foto Centaro

Foto Franca Centaro

È un Eracle declinato al femminile quello che Emma Dante dirige riscrivendone gli equilibri per travalicare forza e potere, distinzioni di generi, precostituite divine ambizioni.
È la scelta di puntare il fuoco dell’attenzione non sull’aspetto esteriore dell’eroe comunemente inteso, ma sulla dimensione intima ed emozionale che lo abita, lo spinge nelle scelte, lo induce in errore e rende vulnerabile. Come un uomo qualsiasi.
Da qui l’idea – che si dimostra vincente e al contempo rispettosa dell’originale – di affidare a donne i principali ruoli della tragedia di Euripide e al solo coro – formato da Alessandro Accardi, Mauro Cappello, William Caruso, Antonio Cicero Santalena, Alessandro Di Feliciantonio, Giacomo Lisoni, Andrea Maiorca, Roberto Mulia, Salvatore Pappalardo, Stefano Pavone, Riccardo Rizzo, tra le componenti più belle di questo lavoro nel suo unisono agire – una identità maschile. Ciò che ne deriva è una riscrittura che senza alterare la dimensione eroica propria dell’opera, suggerisce con la visionarietà felice a cui la Dante da sempre ci ha abituato, una nuovo sguardo con cui leggere gli accadimenti e le relazioni che si intessono tra i personaggi.

Foto Ballarino

Foto Maria Pia Ballarino

Accolto nell’abbraccio del Teatro grande di Pompei dal 19 al 21 luglio, a chiusura della seconda edizione di Pompeii Theatrum Mundi, il dramma ripercorre la vicenda del figlio di Anfitrione, in realtà generato da Zeus, dal momento del suo ritorno dall’ultima fatica contro Cerbero, mentre a Tebe Lico, ridicolizzato nella sua alterigia dall’imprint che gli conferisce Patricia Zanco, ha usurpato il trono e si appresta a uccidere Megara – tragica nel suo valore di madre e moglie pronta al sacrificio nell’interpretazione accorata di Naike Anna Silipo –, i suoi figli e il padre. Ma è con la presentazione che ciascun protagonista, disposto in circolo, fa di sé che la messinscena ha inizio mentre tutto intorno la scenografia – a cura di Carmine Maringola –  bianca e marmorea riproduce con lineare essenzialità un cimitero, presagio della morte che incombe e che alla fine arriverà.
Ventotto le figure che sfilano al ritmo cadenzato dei tamburi (suonati da Serena Ganci e Marta Cannuscio) disegnando geometriche coreografie (opera di Manuela Lo Sicco che le affida alle danzatrici Sabrina Vicari, Mariella Celia, Silvia Giuffrè) che sin da subito esplicitano quella che sarà la forza della regia fino alla fine, in un crescendo di simmetria e specularità che esalta il ruolo del corpo e del movimento quale ulteriore esternazione del linguaggio intrinsecamente inteso. Se è vero infatti che incisive di per sé sono le parole pronunciate (tradotte da Giorgio Ieranò), enfatizzate dal gesto – spesso compulsivamente ripetuto – diventano ancora più incisive le battute con l’effetto che l’uno si lega alle altre in maniera imprescindibile trasformandosi in elemento identitario e identificativo. Materico, tridimensionale nella portata espressiva e comunicativa.

Foto Franca Centaro

Foto Franca Centaro

Contaminazioni (nelle musiche di scena e i costumi, elementi chiave della narrazione che con efficace vivezza costruiscono la drammaturgia sonora e visiva con riferimento anche alla più stringente contemporaneità) e licenze (come la decisione di relegare Anfitrione su una sedie a rotelle, forse la meno necessaria) si susseguono senza mai distrarre dal plot principale ma sottolineandone i passaggi fondamentali.
E non limitata al solo visibile si snoda la trama di cui percepiamo l’evolversi anche da dietro le quinte, per un effetto di continuità che stempera il rischio di suddivisioni episodiche a favore di una fluidità corale premiante. Che pur nell’intrecciarsi degli accadimenti resta centrata, mai sbilanciata a favore di uno solo dei molteplici elementi (danza, suono, recitazione) che la attraversano, animata da una tensione costante che forse subisce qualche calo soltanto nei passaggi con protagonista Eracle a cui Mariagiulia Colace riesce a conferire forza col corpo e le espressioni ma non altrettanto con la voce, probabilmente acerba per un ruolo e uno spazio ampio e all’aperto come quello che l’ha vista impegnata.
Gli fa da contraltare in una simbiosi che si traduce in una somiglianza anche fisica, il personaggio di Teseo, Carlotta Viscovo, che ben regge la responsabilità del ruolo di colui che salva l’eroe dal suicidio affinché possa superare, restando vivo, la sua più grande prova: l’espiazione del dolore di cui è stato causa in prima persona ai danni della sua stessa stirpe durante la funesta follia a cui è stato indotto da Iris (Francesca Laviosa) e Lyssa (Arianna Pozzoli).

Foto Franca Centaro

Foto Franca Centaro

Al sopravvissuto Anfitrione, al cui dolore dà forma ed eco Serena Barone, la centralità della scena finale, catartica come l’acqua che ora bagna i quattro corpi esanimi dopo già essere stato elemento caratterizzante di una delle scene cruciali: quella carica di dolorosa pietas in cui Megara prepara i figli alla morte per mano di Lico.
Acqua, dunque, che battezza, che purifica, che irrora. Facendo germogliare, lì dove non c’è vita, fiori e ancora colori (presenti sin dall’inizio nei toni sgargianti del fucsia, o del rosso a interrompere – come veri e propri colpi di luce catalizzatori di attenzione – il nero predominante) nell’ultimo effetto di splendida suggestione che l’allestimento riserva a chi osserva rapito, prima che gli applausi arrivino a rompere, per encomiarlo, lo struggente quadro di raffinata bellezza.

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