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Tra Ozu e il resto del neorealismo giapponese, il maestro nipponico Hirokazu Kore’eda firma un manifesto della sua cinematografia su crisi relazionali e sottili meccanismi familiari, vincendo la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes.

di Luca Taiuti

La locandina

La locandina

Da qualche parte a Tokyo, Osamu Shibata e sua moglie Nobuyo vivono in povertà. Osamu riceve un impiego occasionale, Nobuyo ha un lavoro poco retribuito, e la famiglia fa affidamento in gran parte sulla pensione della nonna. Di tanto in tanto Osamu va con il figlio Shota a rubacchiare al supermercato. Un giorno, rincasando, scoprono Yuri, una bambina senzatetto abusata che portano a casa e, nonostante le difficoltà economiche, adottano informalmente.
Circa 28 anni di cinema fanno del cineasta giapponese Hirokazu Kore’eda uno dei più alti esponenti del cinema Orientale. Arrivato forse all’apice di una carriera intensa, che negli ultimi anni l’ha portato alla ribalta in Europa grazie a opere come Ritratto di famiglia con tempesta (2016), Little sister (2015) e Father and Son (2013), il maestro nipponico trova in questo suo “affare familiare” un manifesto, il compimento di un lavoro che rappresenta tutto il suo cinema.
I suoi temi sono inconfondibili: storie di emarginati, di miseria, di sopravvivenza, intrighi di famiglia, equivoci, apparenze, collettività contrapposte al valore individuale dell’uomo, la solitudine e il bisogno dell’altro, le differenze tra classi, regole e convenzioni sociali, e l’inesorabile passare del tempo che muta cose e persone. Ed è proprio quest’ultimo, il tempo, ad avere in tutti suoi film, e in questo in particolare, un valore singolare: dilatatissimo, scorre lentamente sulla pelle dello spettatore e diventa un’esperienza sensoriale irreplicabile.
E infatti Un affare di famiglia è un film che si nutre di un modo iperrealistico di raccontare la vita, sia nella scelta del tempo, dove in due ore viviamo la ciclicità di un anno nel passaggio dall’inverno all’estate e ancora all’inverno, sia nella scelta della luce, molto spesso naturale.
Gli attori, tutti impeccabili, si mettono al servizio della storia, e di una regia fortemente naturalistica. Lontano dai canoni cinematografici cui il pubblico occidentale è abituato, il film di Kore’eda, proprio come tutte le sue opere (alcune molto difficili da reperire), grazie ad un forte valore documentaristico percorre il suo cammino sulla strada ove campeggia una scia lasciata dai grandi maestri del cinema nipponico, di quello che è stato definito “neorealismo giapponese”, di cui l’immenso Yasujirō Ozu è stato il maggiore esponente, ma di cui hanno fatto parte anche Akira Kurosawa, Kenji Mizoguchi, Mikio Naruse, Teinosuke Kinugasa, Keisuke Kinoshita, Masaki Kobayashi, Kon Ichikawa e tanti altri.

Hirokazu Kore'eda

Hirokazu Kore’eda

Hirokazu Kore’eda è probabilmente il più grande erede della ricchezza del cinema di Ozu, e i suoi temi, perfino il suo stile, sembrano essere un sontuoso omaggio al più grande dei cineasti giapponesi. I movimenti di macchina, sempre pochi, i tagli, sempre raffinati, dove ogni inquadratura ha un senso formale altissimo, la malinconia e il connubio tra la poesia e il quotidiano, le tensioni che avanzano su fili sottili, i sentimenti forti e i loro impercettibili mutamenti, ne compongono una cifra molto riconoscibile. Sembra non succedere nulla, e invece si manifesta la vita. Un affare di famiglia tratta una piccola storia di famiglia, appunto, consueto tema nella filmografia di Kore’eda (e di Ozu), dove attraverso piccole variazioni si descrivono le controversie e le debolezze umane senza un filo di buonismo, dove la verità ha sempre il valore più alto, e dove i conflitti si esprimono in azioni, quasi mai in parole.
È difficile capirne alcuni passaggi, e alcune cose restano sospese, ma in questo film la trama è solo un pretesto, e l’unica cosa che ha un’importanza sostanziale è la vita quotidiana, la vita vera, dove la famiglia con cui empatiziamo rappresenta una fetta di una società giapponese in forte crisi socio-economica, una crisi di cui si conosce poco, in un mondo culturalmente molto diverso dal nostro.
Essenziale, minimalista, intenso e perfino ironico, Un affare di famiglia trova la sua potenza nella delicatezza che intercorre tra il gesto e il non detto. I suoi temi sono la sua forza, ed è per questo che i grandi Festival come Cannes ne hanno identificato un valore universale, premiando per la prima volta con un riconoscimento importante come l’ultima Palma d’Oro un’intera carriera.

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