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Il livido della Madonna dell’Arco, quale metafora della vita, protagonista del documentario di Alessandra Celesia che questa sera sarà presentato per la prima volta a Napoli nell’ambito della rassegna “Astradoc”.

di Gabriella Galbiati

Alessandra Celesia

Alessandra Celesia

Una voce calma, profonda e pronta ad analizzare le domande a cui rispondere: ecco cosa ci colpisce di Alessandra Celesia, attrice e regista di teatro e cinema, che vive e lavora da alcuni anni tra l’Italia, la Francia e l’Irlanda del Nord.
Per la rassegna “AstraDoc – Viaggio nel Cinema del Reale”, giunta alla sua X Edizione, questa sera  alle ore 20.30 al Cinema Astra verrà presentato il suo “Anatomia del miracolo”, storia di tre donne legate al culto della Madonna dell’Arco. Il documentario – che ha partecipato al 70° Festival Internazionale del Film di Locarno e ad altri festival internazionali, tra cui il 58° Festival dei popoli –  sarà accompagnato a Napoli dalla stessa regista, insieme alle protagoniste Giusy Orbinato, Fabiana Matarese e Sue Song, e al cantante Pino Santoro.
Com’è nata l’idea del suo documentario?
Sono della Valle D’Aosta e un amico napoletano mi ha ospitato, portandomi un Lunedì in Albis al Santuario della Madonna dell’Arco, a Sant’Anastasia. Sono andata da turista a vedere la processione, che si tiene lì tutti gli anni, e sono rimasta estremamente colpita da questo fenomeno di massa molto forte, in cui la gente è coinvolta non solo dal punto di vista dell’ascesi e per la preghiera ma dal punto di vista del fisico. Tutto questo mi ha molto intrigato e il punto di partenza del film è il livido di questa Madonna, una ferita miracolosa che ha sulla guancia. A me sembra una metafora splendida per raccontare tutto quello che amo dell’essere umano, ovvero che nonostante le ferite enormi le persone riescono a stare in piedi e a creare una serie di miracoli in modo da poter andare avanti. È un film che non parte da un punto di vista religioso ma più laico ispirato appunto dal simbolo del livido miracoloso.
Attraverso la sua ricerca per il documentario, che tipo di legame è emerso tra le tre donne protagoniste e la Madonna dell’Arco?
Le protagoniste del film sono tre donne forti e allo stesso tempo molto fragili. Questo è l’aspetto che le lega. Il fatto che siano diversissime è ovviamente una scelta perché mi sembrava interessante raccontare lo stesso tipo di forza e fragilità di tre donne che appartengono a tre mondi diversi. Anche l’approccio alla vita e alla religione sono completamente differenti. Fabiana, che crede profondamente alla Madonna dell’Arco, è una transessuale e la diversità è la sua forza. Giusy è un altro simbolo di diversità e avrebbe bisogno di un miracolo, anche se ormai non lo aspetta più perché comincia a stare bene sulle sue ferite. Infine, Sue è il personaggio più esotico, che arriva dalla lontana Corea passando per l’America e porta il film fuori da una dimensione puramente napoletana. Arriva da un altro mondo e la sua famiglia di origine regale l’ha cresciuta come una principessa. Leggendo Delitto e castigo di Dostoevskij, scopre che l’umanità è molto più problematica di quanto immaginasse ed è propensa al peccato. A Napoli, cerca di darsi delle risposte che per lei passano attraverso la ricerca del miracolo. Tre donne, volutamente diversissime, che però sono lo specchio l’una dell’altra e formano una specie di Santa Trinità intorno alla Vergine, come archetipo che tutte e tre incarnano. Queste tre donne non si incontrano mai e dal punto di vista narrativo è una sfida grande perché le loro storie camminano insieme senza mai sfiorarsi.
Che tipo di femminilità emerge?
Tre tipi di femminilità diverse. Per Fabiana, è voluta; una femminilità accettata nel caso di Giusy che mi ha raccontato spesso come per una donna disabile del Sud sia difficile andare in giro con una maglia scollata. Non si spoglia una carne che non è perfetta e che ha un difetto di fabbricazione. Sue, la bella del film, è una donna molto affascinante che però ha una parte negata, ovvero quella della maternità. In realtà, è un punto che accomuna tutte e tre i personaggi. Credo che la ricerca più grande rispetto alla loro femminilità è stata quella di dare bellezza anche a ciò che non la possiede in apparenza, mettendo in risalto la loro capacità di ribellione. E il finale di Giusy è stato il momento clou di questo percorso, anche se non è stato voluto nel senso che è nato come uno scherzo. Giusy voleva fare un omaggio a Vasco Rossi con i cartelli che le sue mani non riuscivano a reggere ed è esplosa la sua rabbia di vivere. Quest’aspetto forse è al centro della femminilità di queste donne.
Questa sera sarà la prima volta che il documentario verrà proiettato a Napoli. Cosa si aspetta?
È un momento che aspetto con molta gioia. Sarà una festa e sarà il momento che le tre protagoniste e i co- protagonisti saranno riuniti. Penso che vedere il film al cinema, nella loro città, davanti ai loro amici e parenti sarà molto diverso rispetto alle proiezioni di Locarno, Firenze e di altri posti in cui non sono impegnati in prima linea. Mi aspetto un grande abbraccio e ho anche po’ di apprensione perché è da Napoli che vorrei che il film venisse capito e amato. È una città che se lo merita e che a volte è stata cinematograficamente trattata male. Mentre giravo il film, avevo la sensazione che la gente avesse la paura del tradimento e che se ne raccontasse solo il male. I napoletani, che hanno visto il film all’estero, mi hanno detto che sono riuscita ad evitarlo e spero che me lo dicano anche a Napoli.
Lei lavora anche in ambito teatrale, dividendosi tra l’Italia, la Francia e l’Irlanda del Nord. Come cambia il modo di fare teatro in questi tre paesi? Il rapporto con il pubblico è diverso? In che modo?
Sono tre approcci al mondo del teatro completamente diversi. Quello che preferisco è l’italiano perché il nostro è un teatro di pancia, molto vero. Amo il teatro di testo e l’italiano è la mia lingua. Lavoro all’estero perché qui non è facile vivere di teatro e documentario. Ho scoperto altri tipi di pubblico, come quello francese che ama il teatro italiano ed è molto curioso. Il pubblico irlandese è in divenire rispetto agli altri due perché il loro teatro è rappresentato dalla tradizione dei cantastorie e quello contemporaneo è un po’ una novità e di nicchia rispetto all’Italia. Quando feci il primo spettacolo in Irlanda, avevo la sensazione che il pubblico avesse gradito e avesse riso. Alla fine della pièce, invece, applaudì una volta sola e brevemente. Come una disperata allora andai dal regista che mi disse che questa reazione è normale. Il pubblico in Irlanda applaude solo una volta. È molto divertente notare queste differenze e per me è una fortuna lavorare in tre paesi e culture diverse».

Info: www.arcimovie.itinfo@arcimovie.it – 081.5967493

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