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In un cortocircuito che prende vita dalle parole del pittore olandese accostate all’universo kitsch della Cina, Claudia Marsicano e Simone Perinelli si fanno interpreti di una riflessione sull’arte.

di Antonella D’Arco

Foto Simona Fossi

Foto Simona Fossi

Made in China – postcards from van Gogh è il titolo dello spettacolo di Leviedelfool, in scena fino a domenica 9 dicembre nella sala del Piccolo Bellini; sul palco Claudia Marsicano e Simone Perinelli che firma anche la drammaturgia e la regia, avvalendosi della consulenza artistica di Isabella Rotolo. Accanto alla sacralità e all’immortalità dell’arte di van Gogh, Perinelli, nella tessitura della drammaturgia costruita tutta sul contrasto e sul gioco degli opposti, affianca la visione stereotipata dell’Oriente, un universo kitsch dove il sacro è rappresentato dal feng shui e l’immortalità dalla seriale riproduzione di copie delle opere d’arte del pittore, tutte per l’appunto made in China.
«Cos’è disegnare? Come ci si arriva? È l’azione di aprirsi un varco attraverso un invisibile muro di ferro, che sembra trovarsi fra ciò che si sente e ciò che si può». Vincent van Gogh cercò, con la sua tavolozza, di limare quell’ “invisibile muro di ferro” descritto nella lettera n. 237, indirizzata al fratello Theo. Del pittore olandese la compagnia romana ha percorso la poetica, proprio attraverso la corrispondenza che Vincent aveva intrattenuto non solo col fratello Theo, ma anche con l’amico Emile Bernard e la sorella Wilhelmina.
A Shenzen, cittadina poco distante da Hong Kong, esistono molte fabbriche nelle quali si lavora, giorno e notte, per riprodurre l’illusione della bellezza, una bellezza a basso costo e a portata di mano. Le cartoline e i poster più richiesti sono la Gioconda di Leonardo da Vinci e Dodici girasoli in un vaso di Vincent van Gogh. Questa è la premessa, la cornice dell’impianto drammaturgico, spunto per una più ampia riflessione intorno alla funzione dell’arte, oggi, da parte degli artisti e da parte di chi quell’arte dovrebbe proteggerla, senza scoprire il fianco alla sua mercificazione.
Una raffica di suggestioni, di immagini, di frammenti costituisce il racconto scenico. Da un lato ci sono le parole del genio alienato e la sofferenza patita nel manicomio di  Saint Rémy dal peintre maudit; dall’altro lato i gesti e la voce della donna, il suo sorriso di plastica, rassicurante: un muro contro il quale s’infrange il grido di dolore di Vincent. Da un lato ci sono le tele del pittore nato a Zundert, i suoi colori e soprattutto il colore della melanconia di cui amava circondarsi; dall’altro lato il feng shui che suggerisce di arredare casa in base a specifiche tinte cromatiche, tenendo lontano proprio il colore della melanconia. Da un lato l’uomo; dall’altro la donna, divisi. Divisi come è diviso in due parti il cuore, due parti, che ci viene ricordato nella messinscena, non comunicano mai tra di loro. Siedono distanti, su due sedie di paglia, richiamo, nella memoria e nello sguardo, ai dipinti di van Gogh. Le due sedie rimandano alla visione de La camera di Vincent ad Arles, ma anche a quella de La sedia di Vincent con pipa e a La sedia di Paul Gaugin (la sedia vuota). Simulacri in cui leggere la solitudine della quale il pittore soffrì e che fece acuire la patologia psicotica negli ultimi tempi della sua vita. È in questo periodo, infatti, che probabilmente Vincent si tagliò l’orecchio per farne dono a una prostituta che frequentava; gesto immortalato nel suo Autoritratto con orecchio bendato.
“Ogni cosa che fai è un autoritratto. Ogni cosa che fai e che pensi è un autoritratto. Ogni tuo sorriso è un debutto, una prima; tu che sveli te stesso”. L’intensità con la quale Simone Perinelli pronuncia queste parole è una nota che si aggiunge alla partitura delle musiche originali elaborate da Massimiliano Setti. Assordanti, incalzanti, dolci e ipnotiche come un carillon, dalle sonorità orientali, descrivono, assieme alle luci di Marco Bagnai che fendono la scena, i vari quadri e le atmosfere che si susseguono in Made in China.

Foto Simona Fossi

Foto Simona Fossi

Lo spettacolo si anima di raccordi di senso, di discrasie che s’incontrano e si ritrovano, un melting pot di segni e simboli e di continue interruzioni. Il palco è una tela bianca riempita di schizzi e macchie di colore che suggeriscono un paesaggio immaginato. Compito del pittore è eternare quel paesaggio, vivo soltanto nella propria mente.
«Ci sono colori che equivalgono a musiche, il tono dell’ultima tela dipinta da van Gogh, che non è altro più che pittura, in cui la terra sotto i corvi si ricurva come pennelli, in cui lo sgocciolare del colore sulla tela sembra come afferrato all’orifizio del tubo, evoca il timbro aspro e barbaro del dramma elisabettiano più patetico, passionale e appassionato». In Van Gogh. Il suicidato della società Antonin Artaud parlava in questi termini della pittura di Vincent. Lui era stato la vittima di un complotto tramato dalla società e dalla psichiatria, scienza che, ancora fino a pochi anni fa, si mostrava più attenta alla contenzione e alla normalizzazione del malato mentale, piuttosto che a una possibile cura condivisa tra medico e paziente.
Adesso van Gogh è nuovamente vittima della società; è vittima della velocità con cui sono riprodotte e spedite, dalla Cina, le cartoline con sopra stampati i suoi dipinti.
Se «il teatro è una lettura a voce alta e chiara del destino», per dirla alla Colette Thomas, allora Made in China ci mostra un destino incerto ed effimero, del quale, forse, si può già intuire la direzione. In questo destino, con ironia, poesia e forza, ci pare che un ombrellino di carta venga colto da terra come un girasole; che petali di fiori piovano dal cielo; che le istruzioni per l’esecuzione di un selfie perfetto – il moderno autoritratto – siano più lette delle istruzioni per l’uso del cuore; e che il suicidio di van Gogh, della sua arte e di tutta l’arte sia, in realtà, la cronaca di un delitto.

Piccolo Bellini
via Conte di Ruvo 14 – Napoli
contatti: http://www.teatrobellini.it/

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