“La notte poco prima delle foreste”: Favino inconta Koltès
Il testo dell’autore francese prematuramente scomparso a quarant’anni, si fa paradigma di una condizione umana e politica, e attraverso gli occhi di un “ultimo” racconta di identità, isolamento, disagio.
di Antonio Indolfi
Dopo una breve apparizione al Verdi di Brindisi è andato in scena al Teatro Kismet di Bari, per cinque repliche, dal 23 al 27 gennaio, lo spettacolo con Pierfrancesco Favino “La notte poco prima delle foreste”, firmato dalla regia di Lorenzo Gioielli.
Un successo di pubblico annunciato, confermato dal sold out che ha interessato tutti e cinque gli appuntamenti previsti, sintomo della grande affezione di pubblico verso uno degli interpreti più apprezzati del panorama artistico italiano, nonché dell’interesse verso un testo, quello di Bernard-Marie Koltès, già approdato brevemente sul palco dell’Ariston di Sanremo durante una delle serate dello scorso Festival della canzone italiana. Interesse che, in verità, era già emerso nel corso degli scorsi anni, quando prima Giulio Scarpati, poi Claudio Santamaria avevano portato in scena una delle opere più conosciute del drammaturgo francese morto nel 1989.“La notte poco prima delle foreste” (ma il titolo è più conosciuto in Italia come “La notte poco prima della foresta”, come tradotto nella prima versione a cura di Giandonato Crico) è testo difficile, denso, anticlimatico nel suo dipanarsi. Protagonista è un emarginato, un “ultimo”, che prende a parlare con uno sconosciuto nel mezzo di una notte qualsiasi, trattenendolo in un lungo ed ininterrotto monologo-dialogo di cui lo spettatore vede e sente soltanto una delle due voci. Favino, per sua ammissione, non fa politica se non nelle scelte artistiche che compie: e politica è – e tanto – la scelta di interpretare questo testo in quest’epoca buia, così come quella di rappresentare l’uomo come uno straniero; uno “straniero” tout-court, senza ulteriori connotazioni, e l’accento dell’attore romano appare ora quello di un ragazzo rom, ora quello di una persona proveniente dall’Africa occidentale.
Il cangiante eloquio del protagonista acuisce la sua distanza con il suo interlocutore ma soprattutto con quell’Italia cui fa spesso invocazione. Nell’originale, il Paese citato era la Francia di Koltès: è in questa sostituzione l’atto più politico di Favino e di Gioielli, come a fugare ogni dubbio sulla perfetta adesione tra il disagio che si avverte tra lo straniero al centro della narrazione e l’ambiente circostante che lo rifiuta, e il disagio oggi dilagante tra settori in sofferenza del tessuto sociale italiano.La solitudine, in Koltès, è condizione esistenziale e politica in uno, perché non si risolve in una mera distanza (pur avvertibile) tra il singolo e la società che lo respinge, bensì come una discrepanza tra alto e basso, borghesi e “ultimi”, tale da rendere ognuno di questi solo nel proprio abisso. Resta il dubbio di quanto, del messaggio volutamente destabilizzante di Koltès, riesca effettivamente a giungere a destinazione, contribuendo ad allietare la solitudine dei menzionati ultimi, contando che a riempire la sala (al Kismet come altrove, ci viene da pensare) sono sempre quelli più ben disposti ad indignarsi ed altrettanto ben disposti, poi, ad alzarsi forse il colletto, come i tanti che respingono lo straniero di Koltès nel corso del monologo.
Va detto, però, che in questa notte che, citiamo, “rende tutto più difficile”, i 70 minuti offerti da Favino appaiono già tanto: vero e proprio ossigeno nell’asfittico quadro culturale e civile italiano. Tocca prendere per buono il tutto, allora, glissando su qualche lungaggine del testo che avrebbe potuto essere tagliata e godendo, invece, della bravura dell’attore e dei chiaroscuri disegnati dalle luci di Marco d’Amelio. Aver ripreso in mano una drammaturgia così pesante, dopo averla portata in scena già una decina di anni fa, appare di per sé merito da applaudire con vigoria, come fa il pubblico sulle note di “La mer”, che chiudono in agrodolce il monologo faviniano.