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Con “Viva la vida”, in prima nazionale al Ridotto del Mercadante di Napoli, Gigi Di Luca torna a dirigere una appassionata Pamela Villoresi nei panni della pittrice messicana che più di tutte ha saputo trasformare la sua arte e voglia di vivere in viatico per la sofferenza.

di Ileana Bonadies

Foto Marco Ghidelli

Foto Marco Ghidelli

“Ma a me, a che servono le gambe se ho ali per volare?”

Raccontare una icona non è mai impresa scontata né semplice. Se poi quell’icona si chiama Frida Khalo e la sua storia personale e artistica ha lasciato un segno indelebile nella storia culturale del Messico del Novecento, e allora tracciare un ritratto in grado di contemplare tutte le sfumature della sua caleidoscopica personalità è missione non banale né da banalizzare.
Ci riesce con iconografica bellezza, nel taglio drammaturgico con cui appronta la storia tratta dall’omonimo monologo di Pino Cacucci, e nella visione con cui dirige le tre figure femminili che danno corpo all’azione, il regista Gigi Di Luca, che a Pamela Villoresi – elegante e vibrante nel restituire vita e vigore all’artista – affida il ruolo della protagonista, a Lavinia Mancusi e alla sua calda e possente voce quello dell’amica e amante Chavela Vargas, e al silenzio di Veronica Bottigliero, il doppio richiamo alla morte, la Pelona, che ormai aleggia sempre più in forma insistente nella vita agli sgoccioli di Frida, ma anche, col suo body painting, alla matericità dell’arte.

Foto Marco Ghidelli

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Ed è così che “Viva la vida”, al suo debutto assoluto al Ridotto del Mercadante di Napoli che lo ha ospitato dal 31 gennaio al 10 febbraio, diventa la fotografia non solo di una donna, dei suoi dolori, della sua voglia di vivere contro ogni avversità, della mancata maternità, della sua esistenza dedicata alla pittura e alla rivoluzione, ma anche l’istantanea di un Paese, delle contraddizioni che lo hanno attraversato, della etereogeneità di chi lo ha vissuto, comandato, cantato, ritratto.
Lasciando che dolore ed energia, che colori e tristezza si fondano attraversando il tempo della narrazione che, pur se legato a date e riferimenti precisi, si fa infinito nella sua impalpabile esigenza di dare un volto innanzitutto a uno stato d’animo. A un sentire intimo e profondo che ha a che fare con l’amore, le delusioni, l’angoscia per una esistenza segnata da traumi fisici e affettivi. Mentre la musica suonata dal vivo fa da eco che riverbera i pensieri, calandoci – a noi che assistiamo – dentro i luoghi, ideologici e no, in cui siamo condotti dalle parole dell’artista. Libere rispetto al corpo rigido e sofferente che ne limita i movimenti. Libere rispetto a ogni limitazione nel vivere la propria sessualità; libere come le multiformi identità culturali e di stirpe che in Messico hanno trovato piede e di cui la stessa Khalo è emblema discendendo da un padre ebreo ungherese e una madre per metà messicana e per l’altra indios.

Foto Marco Ghidelli

Foto Marco Ghidelli

Sulla scena a dare consistenza a tutto ciò, mentre intorno il nero del fondale enfatizza i corpi in luce, solo una sedia medicale, di quelle girevoli, adornata di fiori rossi, e uno specchio simbolo di quell’unica finestra su se stessa che aveva Frida quando per lunghi anni fu costretta a letto, ingessata, in seguito al tragico incidente che le cambiò la vita. Tutto il resto – come la relazione travagliata col maestro/marito Diego Rivera: “il mio secondo incidente mortale, la vita che mi è mancata”; l’amicizia, improvvisamente finita, con la fotografa Tina Modotti; il legame fugace con il comandante dell’Armata rossa Leòn Trockij – è solo evocato, nominato, fatto rivivere attraverso lo sguardo ora sognante, ora arrabbiato, ora euforico, ora rattristato della Villoresi, appassionata nel suo concedersi a Frida. Nel lasciare che le emozioni e i palpiti del suo personaggio si impossessino con autenticità della sua voce, dei suoi gesti, affinché il fittizio si trasformi in empatia, la verosimiglianza in credibilità. E l’effetto ultimo sul pubblico si traduca alla fine in meritati, lunghi applausi.

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