Il Principino: nel pozzo artesiano delle relazioni perdute
Ispirandosi a “Il piccolo principe” tradotto in barese da Vito Signorile, Damiano Nirchio esplora il difficile rapporto tra padri e figli e la difficoltà di fare i conti con le proprie radici.
di Enrica del Rosso
Come può un classico della letteratura creare un legame invisibile tra un padre e un figlio allontanati dalla vita e dalla morte? Come può una tragedia a risonanza nazionale raccontare un rapporto ormai disgregato e fragile?
Ne Il principino – Breve cronaca familiare da un trivani vista ciminiere di Teatri di Bari, in scena al Teatro Curci dal 15 al 17 febbraio e in programmazione al Nuovo Teatro Abeliano ad aprile, si assiste alla complessità della nostalgia: ci fa tornare, ci fa fuggire. In un andirivieni continuo, come i treni veloci che viaggiano da nord a sud e viceversa per farci trovare un posto nel mondo degli adulti e poi immancabilmente ritrovare il nostro posticino, quello che si è lasciato a casa. Che ci piaccia o no.
Nel nuovo lavoro del drammaturgo e regista Damiano Nirchio, un trentenne cinico e rancoroso (interpretato da Danilo Giuva) deve affrontare forse per l’ultima volta i fantasmi della sua famiglia. Una casa da vendere per poter andare avanti e dimenticare il passato crudele al quale invece l’anziano padre non vuole rinunciare.
Aggrappato alla sua logora poltrona e al suo televisore a tubo catodico anni ‘80, il personaggio interpretato da Vito Signorile (cofondatore e direttore artistico di Teatri di Bari), con la sua figura trasandata e “ciabattante”, vuole ancora sopravvivere in quella realtà che ha faticosamente costruito con le sue mani operaie. E allora quella polvere tossica, proveniente dalla vicina fabbrica, che si deposita tutta intorno, a formare un atollo di solitudine nel salotto, diventa l’orgoglio di un lavoratore che ha fatto del suo meglio per garantire il necessario alla sua famiglia.
Purtroppo, tutta la fatica e il sacrificio di una vita, che dolorosamente riaffiorano in dialoghi fatti di ricordi (sì familiari, ma anche ricchi di riferimenti alla cronaca nera nazionale, come il Massacro del Circeo), vengono distrutti e calpestati dal figlio – quasi fisicamente dal suo movimento ossessivo sulla scena e dalla sua parlantina svelta, in modo a tratti violento, sgarbato.
Anche l’immagine squisitamente materna dell’amica d’infanzia (interpretata da Anna De Giorgio), amorevole, premurosa, incinta, è il perfetto vertice di un triangolo di sentimenti languidi che appaiono via via più inconsistenti come gli incubi o i lontani spot pubblicitari che rimbombano dalla tv.
Allo stesso modo sfuma via, tra le réclame e le canzoni pop, la vicenda di Alfredino: è proprio quel 12 giugno 1981. In quel pozzo artesiano vicino Frascati non si trova incastrato solo il povero Alfredo Rampi, ma tutti quei bambini privati di un’infanzia, che aspettano invano i soccorsi. Allora una volta cresciuti, quei bambini del Sud andranno lontano, in città che detestano ma, come si confidano poi i personaggi in scena, in fondo con un fuoristrada puoi illuderti che un lago sia come il mare.
Come resistere allora in mezzo alla polvere se non con l’estremo gesto dell’abbandonarsi alla vita tramite l’arte? La lettura e la condivisione tra padre e figlio, anche a trent’anni dalla prima volta, de “Il piccolo principe” di Saint-Exupéry (tradotto in dialetto barese da Signorile), è l’unica illusione efficace, capace di vera interazione. Quando tutto appare ormai solo avvolto dalla nebbia della demenza senile e ci sembra che più che “un fatto di vita, abbiamo visto un fatto di morte”, secondo le celebri parole di Giancarlo Santalmassi in diretta Rai a conclusione della tragedia di Vermicino, ecco che accade l’impensabile: il padre-pilota ritrova il figlio-principino. Quelle pagine rilette assieme come il passo di una Bibbia personale che ritorna più volte nella storia della loro piccola, semplice famiglia, riaccendono una seppur flebile fiamma d’amore filiale e permettono al padre di riconnettersi con la realtà che lo circonda.
Di questa grande bolla di sapone, troppo fragile per non scoppiare, resta il desiderio di presenza, di complicità e una domanda (e una preghiera): “Mi disegni, per favore, una pecora?”, la stessa che risveglia il pilota Saint-Exupéry dopo il naufragio nel celebre romanzo. Stavolta però la situazione è capovolta: è il figlio a disegnare, nell’atto di prendersi cura del padre, a cui è rimasto solo quel foglio appeso in cucina nel finale.
E come ogni naufrago, il vecchio è pronto ad affrontare un nuovo destino, rassegnato ma sicuro di sé, prestante, un po’ ringalluzzito, con la valigia già preparata con l’essenziale, nell’attesa (o nell’illusione) del ritorno a casa del suo Principino.
Prossime repliche
TEATRO ABELIANO: Sabato 30 marzo, h. 21 e Domenica 31 marzo, h. 18
TEATRO ABELIANO – COMUNE DI BARI: dal 4 al 7 aprile.