“Il gabbiano”, elogio e denuncia del nulla che siamo
Il capolavoro del Novecento di Anton Cechov torna in scena per la regia di Marco Sciaccaluga nella versione del 1895, precedente alla censura zarista, conducendo lo spettatore in un vortice di sentimenti contrastanti.
di Angela Zinno
Nella prima incensurata versione del 1895, tradotta da Danilo Macrì, in scena dal 26 febbraio al 3 marzo al Teatro Nazionale di Genova, “Il Gabbiano”, di Anton Cechov, dramma intramontabile, tabernacolo di riflessione sul teatro, quindi sulla vita stessa, ambizioni e disincanti, inquietudini e vuoti. La traiettoria che intraprende la regia di Marco Sciaccaluga è netta, chiara, esaustiva. Una messinscena schietta che non è tanto evocazione di stilemi tradizionali, quanto sincera e coerente volontà di proporre una forma classica nel suo genere, nel suo senso intrinseco.
Con luci di sala ancora piene, la musica di Andrea Nicolini (sulla scena nelle vesti del maestro Semiòn Semiònovic Medvèdenko) ci avverte dell’imminente inizio placando il brusio e accompagnando il sipario che si apre sul lago dipinto ad hoc, scenario dicotomico di morte e vita. La scena di Catherine Rankl ci trattiene in un giardino caldo, fatto di legno, steccati, sedie di vimini e panche, in cui si erge un piccolo spoglio teatro sormontato da un leggero sipario di tela bianca; quasi una intima alcova campestre in cui si consumano i sogni ancora incontaminati dei giovani Konstantìn e Nina (i pronti e centrati Francesco Sferrazza Papa e Alice Arcuri); quegli stessi sogni che una volta arrivati a compimento nella realizzazione delle agognate professioni di scrittore e di attrice, sanciranno la loro stessa condanna ad una irrimediabile infelicità. Un vuoto cosmico assoluto, privo di appigli; l’inesorabile e triste “routine” alla quale mai avrebbero voluto appartenere e dalla quale mai più riusciranno ad emergere.
Dopo l’intervallo durante il quale attendiamo con grande curiosità la seconda parte, la scena ci accoglie in un sobrio interno ottocentesco; mobilio cerato, lampade, quadri, una quinta a vista sagomata con una porta; uno spazio nello spazio, all’ombra della scala staccionata che in precedenza portava in giardino. Un dentro nel dentro, come specchio della discesa lenta che percorrono i personaggi all’interno di sé stessi. Passaggi emotivi inosservati e quasi preannunciati. Ed è così che assistiamo al persistere di quella “voglia di vivere” una vita mai vissuta di Sòrin (un solidissimo Federico Vanni) a dispetto dell’inesorabile peggioramento del suo stato di salute, all’alienato compromesso accettato da Mascia (una puntualissima Eva Cambiale) nata in lutto e che sposa Medvèdenko nel tentativo di vincere una perenne lotta con l’amore non ricambiato di Konstantin, al ritorno del romanziere Trigòrin (un sapiente Stefano Santospago) dopo la relazione con la giovane Nina che “non può non amarlo”, alla sua consueta assenza di volontà, esasperata nella amorfa e latente relazione con la sua amante, l’attrice Irina Arkàdina, (una più che convincente Elisabetta Pozzi) emblema della sua stessa paura di cambiare forma, di perdere un consenso vano, e forse addirittura ignara dell’incapacità di accettare il proprio stato. Una figura tanto luminosa nel suo patetismo estremo, tanto più forte nel senso obbligatamente altezzoso di offrire una mancia all’operaio (un più che presente Kabir Tavani) piuttosto che nel carezzare Kostja, il suo giovane figlio. Ed è proprio lei la regina madre di questa borghesia che gira su sé stessa, a vuoto, senza sosta, rappresentativa di un nulla dilagante e tuttavia credibile e dignitosamente ancorato nel suo stesso patetismo, che disperatamente cerca di celare nell’ombra. Un’ombra che il sapiente disegno di Marco D’Andrea dipana, con un gioco di piantane e luci a vista a sottolineare, forse, l’urgenza dell’evento teatrale come puntatore d’attenzione su dinamiche umane che oggi, probabilmente più di ieri, abbiamo bisogno di leggere, di interpretare.
Un discorso di luci che ci desta, sorprendendoci quasi, con il controluce forte e ambrato di un tramonto al momento del cambio scena tra i due atti in cui gli attori abbandonano la sapiente fisicità scenica mostrando la sagoma della realtà, come a suggerircene il continuo labile confine. Il Gabbiano resta ancora un’opera di incalcolabile contemporaneità, un racconto di amori irrisolti e forse irrisolvibili, ambizioni irrealizzate ma anche mai concepite autenticamente, un dibattito ancora aperto sulla necessità di un codice universale per interpretare il senso dell’arte e della vita stessa. Insospettabile ago della bilancia in questa partita, il Dottor Dorn (un intenso Roberto Serpi), l’uomo medio, amante di Polina (una precisa Elsa Bossi), madre di Mascia e moglie dell’amministratore della tenuta, Sciamràev (un dinamico e forte Roberto Alinghieri). Un medico, un uomo di scienza, un “non-artista” che si interroga sull’arte più degli stessi artisti. Che se non comprende, per pigrizia o convenienza, quanto meno intuisce la necessità di proporre uno sguardo leale alla possibilità di nuove forme, nuovi assunti. Questo allestimento, onesto, elegantemente semplice, sincero, ce lo insinua quest’interrogativo. Ce lo lascia ipotizzare. Ci suggerisce la riflessione. Quanto e in che misura la forma, nella vita come nell’arte, implica oggi sostanza? Poco prima di uccidersi, Konstantìn accenna la sua risposta, e ce ne resta l’eco, uscendo dal teatro: “ […] non si tratta di forme vecchie e nuove, ma del fatto che l’uomo scrive, senza pensare alle forme. Scrive perché gli fluisce dall’anima […]”.
Teatro Nazionale di Genova
Piazza Borgo Pila, 42 – Genova
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