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A fronte della proposta leghista di dare maggiore spazio alla canzone italiana in radio, dopo l’intervento del M° Luca Signorini, continua sulle pagine del nostro giornale il dibattito che questa volta si arricchisce del punto di vista di Maurizio Morello, componente del coro del Massimo napoletano.

di Maurizio Morello*

@Pixabay

Fonte foto: Pixabay

Un politico leghista, presidente di commissione parlamentare, ha proposto di difendere la musica italiana imponendo alle radio, pubbliche e private, di trasmettere su ogni tre almeno una canzone italiana.
Invero qualcuno ha fatto notare che già attualmente il rapporto tra canzoni italiane e straniere proposte dalle nostre radio è di uno a due. Si tratterebbe quindi di adeguarsi al ribasso. Ma fin qui nessuna meraviglia, è infatti risaputo che ormai i politici, di ogni risma e grado, non “vanno a tempo”.
Vale la pena, invece, di cogliere questa premura in salsa sovranista per riflettere su due punti: cosa significa “musica italiana” e, posto che si riesca a definirla, cosa significa difenderla?
Forse il politico leghista intendeva riferirsi, nella sua proposta, alle canzoni con testo italiano? Certamente dev’essere così, perché la grammatica musicale non ci risulta essere diversa in ogni parte del mondo. Semmai lo era nel passato rispetto a oggi, ma questo è un altro discorso. Quindi, poiché nomina sunt consequentia rerum, cominciamo a precisare che non di musica stiamo parlando, ma di testi. La musica invece non si lascia afferrare, perché è per sua natura fluida. E si nutre di continue e imperscrutabili affluenze, che non conoscono confini di sorta. Così come un fiume carsico non lo fermi alla frontiera, semplicemente perché non lo vedi, allo stesso modo non puoi individuare i nutrimenti della musica. Si potrebbe in questo senso dire che la musica appartiene al dionisiaco della contaminazione, più che all’apollineo dei contorni formali. Insomma, la musica è bastarda! Felicemente bastarda! E se ne facciano definitivamente una ragione i guardiani dell’italianità.
Se invece lo scrupolo è quello di aiutare non la musica italiana, ma la musica in Italia allora il disco cambia. E le orecchie dei musicisti non possono che essere particolarmente sensibili al suono di un discorso così impostato. Naturalmente a questo punto non ci si potrebbe più limitare a parlare della musica cosiddetta “leggera”, ma bisognerebbe parlare della musica tout court. Solo degli ignoranti infatti, e stupisce che possano esserci tra coloro che hanno così a cuore le sorti della musica, possono non sapere che la divisione tra musica cosiddetta leggera e musica cosiddetta classica o colta è del tutto fittizia. Anche qui la musica non conosce confini e transita da una parte all’altra senza regole e senza permessi, con buona pace dei doganieri leghisti.
Ma cosa significa aiutare la musica in Italia?
Nel progetto di autonomia regionale differenziata di cui si discute in questi giorni nel Paese, in seguito al referendum promosso da tre regioni settentrionali italiane, c’è un capitolo che riguarda la pretesa, da parte di queste regioni, di gestire una quota rilevante del FUS (fondo unico dello spettacolo) in assoluta e insindacabile autonomia. Ciò vuol dire che non le sorti di tutte le attività musicali in Italia stanno a cuore ai corifei dell’italianità, ma alcune più di altre. Dietro il trucco sovranista fa cioè capolino il vecchio vizio leghista di portare acqua al mulino che macina, e consuma, di più.
Rimane a questo punto un dubbio: ma la musica napoletana, colta o leggera che sia, come sarà considerata nell’ottica del sovranismo leghista? E che ne sarebbe dell’identità musicale italiana senza il contributo musicale di Napoli? O della pizzica salentina?
Eppure sarebbe bastato, al proponente leghista delle quote musicali, ascoltare Pino Daniele che canta “a me m’ piace o’ bluse” per capire che “non può lo scoglio arginare il mare”.

 

*artista del coro del Teatro di San Carlo di Napoli

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