Roberto Serpi: i miei primi 30 anni da attore [INTERVISTA]
Tra i protagonisti de “Il Gabbiano” diretto da Sciaccaluga, Roberto Serpi si racconta ripercorrendo, tra i ricordi, la sua lunga carriera da “artista-artigiano”.
di Angela Zinno
“Io penso che il lavoro dell’attore sia essere lì, nudi e far ricordare al pubblico che è nudo anche lui, perché gli fai vedere dei demoni”: così racconta Roberto Serpi, attore genovese, i suoi quasi trent’anni di carriera teatrale vissuta sulla scena nazionale e internazionale.
Nel suo camerino del Teatro Nazionale di Genova, che ha ospitato, durante la tournèe nazionale, la versione di Marco Sciaccaluga de “Il Gabbiano” (qui la recensione), Serpi si racconta in un dialogo aperto. Dai suoi esordi con i maestri della scena, quali Benno Besson e Alfonso Santagata, proponendoci una serie di riflessioni su un mestiere che si fa arte restando specchio di umane contingenze.
Nel 1990 si diploma alla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova; dopodiché parte una carriera che passa attraverso eventi e nomi di taglio importante, come Alfonso Santagata, Benno Besson: ci racconta come nasce come attore e quali le tappe che hanno disegnato la mappa di questi suoi primi trent’anni di teatro?
Ognuno parte da punti diversi; qualcuno inizia a fare questo lavoro quasi per caso, altri perché sentono la necessità e l’esigenza di esprimersi e quindi trovano nel Teatro una modalità di espressione che li soddisfa. Nel mio caso tutto è nato per caso, sono passati quasi trent’anni e forse non mi ricordo neanche com’è cominciata. Io ho iniziato a fare teatro amatoriale, e non pensavo al fatto che potesse diventare un mestiere. Poi casualmente, attraverso una serie di casuali concatenazioni, venni a conoscenza della scuola di recitazione, proprio a Genova, la mia città; provai ad entrare e al primo colpo me ne trovai allievo. È a questo punto che entri in un mondo fantastico che ti mette davanti uno scenario di insegnamenti di cui non sospettavi neanche l’esistenza. Cominci a capire che per fare questo lavoro servono una serie di competenze, ad esempio saper respirare: ti viene insegnato al primo anno e tu sei lì, a diciotto anni e ti stupisci di quanto sia grande l’insospettabile a cui non avevi mai pensato prima di allora. Quindi respirare e poi anche “parlare”; e questo è un passaggio molto duro per il semplice fatto che poi inizi ad essere tagliato un po’ fuori da tutto quel mondo che non è “teatrale”, ecco. I tuoi amici iniziano a guardarti quasi come un alieno e a volte, non dico ci sia un vero e proprio embargo ma cominciano a guardarti seriamente come una persona diversa, e tu però, pur di imparare questa “competenza necessaria” inizi a sacrificare. Detto questo, dopo il percorso accademico di tre anni, per altro molto faticoso anche a livello emotivo, inizi a entrare in questo mondo strano e ti accorgi di essere entrato nel tuo sogno che è diventato reale, capendo che l’impatto col palcoscenico è ciò che in assoluto ti insegna di più, ed è esattamente lì che, una volta acquisita la tecnica, inizi a capire come affinarla; un po’ come aver imparato a nuotare in piscina e poi tuffarsi in mare aperto.
E il suo primo tuffo quale è stato?
Il mio primo tuffo è stato interessante perché, finita la scuola, dopo due o tre lavori più modesti in teatri genovesi, ci fu l’inaugurazione del teatro in cui siamo, lo Stabile di Genova, nel 1991 mi pare, e venne messo in scena “Mille franchi di ricompensa” di V. Hugo per la regia di Benno Besson; ho iniziato a lavorare con lui in questo allestimento e nei suoi successivi quattro spettacoli. Naturalmente io avevo pochissime battute, ero molto giovane, ma essere in quello spettacolo, con un maestro internazionale come lui, allievo di Brecht, fu un tuffo seriamente molto impegnativo e di stimolo assoluto ad imparare, tant’è che a trent’anni di distanza, ancora oggi, sia io che tutte le persone che hanno lavorato con Besson ancora lo citiamo e teniamo come modello il suo modo di porre in essere l’analisi del testo assolutamente innovativa. Qualche anno dopo, con lui è capitato di fare anche “Amleto”, che aveva già portato in tutto il mondo sette, forse otto volte, ma ogni volta la sua lettura svelava sostanza da quel testo che la volta precedente non era venuta in luce. E questo ad esempio è uno dei grandi insegnamenti che ho appreso da questa esperienza: gli anni accademici ti danno degli strumenti, ma poi devi acquisire piano piano il modo di analizzare per conto tuo il testo; e ciò lo impari soltanto lavorando a scena aperta, osservando il ragionamento registico, guardando soprattutto le prove in cui tu non sei presente, raccogliendo quante più informazioni possibili relative anche alle parti che non sono tue.
Ricordo a questo proposito il maestro Zeami Motokyo Kanze, colui che ha “decodificato” il Teatro No, che sostiene che anche gli attori meno abili possono essere dei grandi maestri, perché se si guarda un attore che si reputi essere meno capace, o che non piace, è proprio analizzandolo che si comprende dove si trova il senso del “bello” al quale si vuole arrivare.
Prima citavi ad esempio Alfonso Santagata, che per me è un altro mostro sacro; con lui debuttai al Festival di Sant’Arcangelo con “Tragedia ‘ammare”, uno spettacolo vissuto perennemente come materia viva, che lui cambiava in funzione dello spazio in cui andava in scena. Ricordo che quando lo facemmo sulla spiaggia di Rimini, c’era una parte di testo che prevedeva l’arrivo di due messaggeri a cavallo. Noi eravamo tutti li, di giorno si costruivano e si sistemavano le scenografie, si lavorava tanto soprattutto di artigianato, e lui andava in giro per maneggi nel tentativo di affittare questi due cavalli. Un giorno, al rientro ci disse di aver parlato anche con i responsabili di un circo che non aveva i cavalli ma aveva una giraffa. E ci guardava tutti come a dire “che faccio? La prendo?” Ed ecco un’altra lezione di teatro, e cioè che lui non metteva veto su nulla di quanto la fantasia e la contingenza gli suggerissero. Si poneva interrogativi su ogni cosa. Naturalmente poi, la giraffa non l’ha mai presa. Ma quel modo di ragionare a me ha sempre molto impressionato e mi ha fatto entrare nell’ordine di idee che fare Teatro forse è dare la possibilità, anche alle cose apparentemente impossibili, di poter essere realizzate. E questo era un suo modo di creare che mi ha influenzato molto. E ancora oggi, quando, nella mia solitudine analitica, io sono davanti ad un problema, a una scena da risolvere a volte sento ancora quella vocina che mi dice “ricordati della giraffa”.
“Solitudine” è una parola che torna, come quasi a rappresentare una capacità intrinseca. Quali doti ritiene imprescindibili per fare questo lavoro? Esiste, concretizzando, “chi può e chi non può”? E se sì chi è che può a suo parere?
Eh bella domanda. Perché si potrebbe rispondere che sia necessario un talento innato, però io non saprei dirti da dove viene questo talento innato. Non so se sia una specie di Spirito Santo che ti arriva da quando nasci, che qualcuno decide che farai sto lavoro qua, oppure è una questione di grandissimo allenamento. Però, per dire, anche se dovessi allenarmi per cinquant’anni di seguito non sono così convinto di riuscire a diventare un esperto di arti marziali o un bravissimo pittore. A me piace disegnare ma so per certo che non diventerò mai un Picasso, piuttosto che un Van Gogh, ma neanche Pollok, neanche buttando dei colori a caso. C’è qualche cosa che mi dice che non riuscirò mai a fare una roba del genere.
Non so se ci sono persone che possano farlo e altre no. C’è tanta gente che ha un grande talento e prova a perseguirlo, e poi viene frenata da qualcosa che sono magari dei fallimenti che scoraggiano, o una timidezza che ti impedisce di esprimerti in un certo modo. Io penso che il lavoro dell’attore sia essere lì nudi e far ricordare al pubblico che è nudo anche lui, perché gli fai vedere dei demoni. Per esempio questo è molto evidente nella Commedia dell’Arte, la maschera nasce come demone, Arlecchino è un demone – viene anche citato nella Divina Commedia il diavolo Alechin – e ciò serve a ricordare che bisogna sempre avere paura del diavolo, che i diavoli sono dentro di te, che esiste la morte.
Rispetto al talento Seneca diceva che la fortuna non esiste, esiste soltanto il momento in cui il talento incontra l’opportunità, l’occasione. Cosa ne pensa?
Le occasioni sono molto importanti. Oggi non ci si può permettere di stare a casa ad aspettare che arrivi la telefonata risolutrice, bisogna darsi un po’ più da fare, bisogna farsi vedere, bisogna incontrare le persone. Non vuol dire arruffianarsele o farsi raccomandare. A volte basta essere nel posto giusto al momento giusto, nel senso che bisogna essere presenti, farsi vedere, conoscere le persone. Oggi si spediscono curriculum, fotografie, bisogna essere PR di sé stessi perché molti lavori li trovi frequentando la gente.
Rare volte ti può capitare di lavorare senza la necessità di fare il provino, perché le persone ti conoscono molto bene, ti chiamano e ti dicono di cosa hanno bisogno. Ovvio che succede dopo 20 o 30 anni che fai questo lavoro. Non è semplice.
Per cui è vero che il talento deve incontrare l’opportunità, nel senso che comunque non è un lavoro per gente pigra che sta a casa e aspetta che succeda qualcosa. Certo può capitare di deprimersi, perché i momenti di depressione ce li hanno tutti, soprattutto quando non lavori. Può anche capitare di disamorarsi di questo lavoro, ci sono periodi in cui hai dei momenti di crisi perché non credi più che sia una cosa necessaria, che non sia più arte, ma una mera esecuzione di un personaggio o di un testo. Non è così frequente fare uno spettacolo in cui pensi di fare veramente l’artista. Ma la cosa importante è che tu senta che per te sia sempre necessario.
Quest’ultima frase mi ricorda quanto detto una volta da Eugenio Barba che alla domanda: “Affronta il teatro sempre con lo stesso intento?” rispose: “Io lo farò fino a che lo sentirò necessario”. È questo che fa la differenza tra l’essere artista e fare l’artista?
Si, perché, a volte, quando stai facendo uno spettacolo, ti domandi perché stai facendo quella cosa lì. Ti ritrovi a dire parole scritte da un signore che le ha scritte in una lingua, che vengono tradotte da un’altra persona e le stai pronunciando come un’altra persona ancora ti dice di dirle. Alla fine nella catena sono almeno il quarto che sceglie come dirle: c’è lo scrittore, il traduttore, il regista e alla fine ci sei tu. Per cui incominci a sgomitare e a pensare: “Quando dico queste cose vorrei che fossero mie”. Altrimenti sei un mero esecutore che dice le cose più o meno bene, con dei colori più o meno giusti, con delle intenzioni e dei pensieri più o meno corretti, ma poi alla fine la tua anima non c’è. Ed è questa la differenza molto grossa: a volte assisti a degli spettacoli in cui non vedi l’anima delle persone, oppure lavori con delle persone di cui non vedi l’anima attraverso gli occhi, o che sono totalmente trasparenti, e capisci che ci sono loro lì, sono presenti, non stanno eseguendo una cosa che gli è stato chiesto di fare. Questo è un limite molto sottile che è difficile da realizzare perché la trappola del cadere nella semplice esecuzione giusto per accontentarsi della prima cosa è sempre molto presente, e lì torna sempre la giraffa di Santagata: non ti puoi accontentare. Nel momento dell’allestimento non ti devi accontentare della prima idea che ti viene in mente perché ci sono altre dieci, quindici, venti opzioni per scavare all’interno del personaggio che stai costruendo.
Ritiene che il processo creativo sia sempre più valido del risultato finale?
Esatto. Tra l’altro, a questo proposito, mi è capitato l’anno scorso di fare una mise en espace in occasione di una rassegna di drammaturgia contemporanea, di un testo di Vitaliano Trevisani, autore vivente contemporaneo, scritto in vicentino. Dopo sono andato a vedere un’intervista che lui aveva pubblicato in rete in cui diceva che se un libro è scritto bene quando uno lo legge si riapre il processo che lo scrittore ha usato per scriverlo. Quindi vuol dire che non leggi il libro passivamente ma si innescano una serie di processi che ti collegano ad altre cose. Fare il teatro in un certo modo, anche per chi lo vede, ti pone delle domande che ti fanno diventare una persona migliore. Io sono convinto che se le nuove generazioni, i ragazzi da quindici anni in su, andassero molto di più a teatro, con un’ attenzione maggiore rispetto a quella che mettono in una matinée in cui sono distratti da altre cose, diventerebbero più educati nella vita.
Come potrebbe cambiare il teatro per i giovani? Pensa che oggi con questa rivoluzione “social” il teatro riesca ad avvicinarsi al giovane pubblico?
Penso di sì. Curiosamente Il Gabbiano di Čechov sta piacendo molto anche ai giovani. Abbiamo fatto sei piazze, questa è la settima, e ci siamo domandati: “Ma non è che stiamo arrivando a una tendenza-controtendenza per cui la gente ha bisogno di rivedere i classici interpretati in modo classico senza grosse innovazioni?” Forse c’è un tale abuso tale dei social e di internet che il pubblico ha bisogno di una boccata d’aria, di vedere le cose in maniera semplice, di non avere troppi bombardamenti tecnologici. Il teatro è uno dei posti dove più si può ottenere questo, dove si può “respirare”.
Come si realizza il suo personale processo creativo rispetto all’incontro con un personaggio?
Quando prendo un testo cerco di estrapolare tutte le informazioni che ci sono sia del personaggio che del testo in sé. Quindi anche quello che dicono gli altri del tuo personaggio, proprio gli aggettivi e i commenti che vengono fatti. Poi uso anche degli altri modi di pensare, per esempio, si può fare anche un esame iconografico del personaggio. Se tu prendi dei ragazzi e gli fai vedere la Pietà di Michelangelo e gli chiedi che cosa sia loro ti risponderanno: “È la Pietà di Michelangelo, una statua scolpita nel Cinquecento”. Io direi di no, di fare un esame partendo dalla cosa più semplice: è un pezzo di marmo. Poi dopo vai al livello successivo: è un pezzo di marmo scolpito che rappresenta qualcosa, ma cosa? E così sempre più nel dettaglio: se parti da prima l’analisi è più accurata. Lo stesso vale per i testi teatrali.