Manlio Boutique

In scena a Bari il nuovo lavoro della compagnia Acasa che attraverso sei quadri affonda lo sguardo in un dramma mai così attinente all’oggi: il tema della prostituzione, declinato nelle sue molteplici sfaccettature, tra anime perse, complici senza scrupolo e genitori assenti.

di Enrica del Rosso

Foto Maria Grazia Morea

Foto Maria Grazia Morea

In un momento così azzeccato per la sua tremenda attualità in relazione alla recente proposta di riapertura delle case chiuse, parlare di mercato del sesso e delle sue sfaccettature è forse qualcosa di più di un esercizio di stile o di semplice pruderie. Non stupisce affatto quindi che la drammaturgia e il teatro nel suo insieme si confronti e si immerga nel mondo della prostituzione, considerando le profonde implicazioni morali, sociali e umane che travolgono tanto gli artisti quanto gli spettatori.
In questo senso Sworkers della compagnia Acasă (in scena al Nuovo Teatro Abeliano a Bari il 15 e 16 marzo) si pone oltre il voyeurismo e la pruriginosa curiosità che sicuramente almeno una volta nella vita ha colpito tutti noi indistintamente: la domanda non è “com’è la vita di una prostituta?”, ma “quante vite diverse sono racchiuse nella tenaglia del sesso a pagamento?”. Senza questa panoramica, d’altronde, è difficile giudicare un’intera categoria, come invece sembra estremamente semplice agli schieramenti avversi dei fanatici dell’orrore puritano e degli accaniti difensori della libertà imprenditoriale.
Sworkers è uno spettacolo collaborativo, scritto e recitato a più mani e a più voci, per rendere giustizia a una complessità che altrimenti scadrebbe nel vacuo moralismo. La compagnia barese, attiva dal 2015, che presenta nel suo repertorio altre produzioni di teatro civile, non è nuova a questa scelta creativa: anche nel caso dello spettacolo H24, sul tema delle badanti (prima produzione del gruppo), ritroviamo uno schema simile con più monologhi a formare il tessuto drammaturgico.
In questo variegato album di figure sospese nel limbo della prostituzione scorrono le storie di sei sex workers, più uno. Già, perché il primo impatto, inquietante quanto immaginifico, arriva con una bambola-manichino a grandezza naturale, nuda e dalle fattezze africane mossa da una delle attrici (con uno stile che ricorda vagamente il bunraku, il teatro di figura tradizionale giapponese). La bambola affiora dal buio, a passi lenti e felpati, e dopo poco al buio ritorna, come se non fosse mai esistita. In fondo, è esattamente questa la percezione diffusa delle lavoratrici del sesso: donne-oggetto che vivono nell’ombra, dimenticate.

Foto Maria Grazia Morea

Foto Maria Grazia Morea

Per questo l’ingresso della prima attrice direttamente dalla platea è ancora più significativo: sono molto più vicine a voi di quanto possiate pensare. Il primo monologo è di Rossella Giugliano e porta in scena il più riconoscibile dei profili, la prostituta di strada, sguaiata e volgare, ma anche profondamente familiare. La potremmo definire una rassicurante puttana di quartiere, che parla lo stesso dialetto dello spettatore e che mostra esattamente quello che ci si aspetterebbe da lei: alte zeppe dai colori accesi, calze (fin troppo) usurate, la sfacciataggine dell’esperienza. La vediamo mentre attende il suo prossimo cliente e cerca di far trascorrere quel tempo infinito, speso a guardare le nuvole, come dice lei stessa. Se il contenuto del suo monologo ci permette di addentrarci nel pianeta del sesso da un immaginario abbastanza noto (il protettore che le trattiene la maggior parte dei guadagni, i clienti fidati con famiglia), ciò che colpisce è sicuramente l’approccio. Il tono per quasi l’intero monologo è assolutamente comico, ironico, schietto, molto divertito. Tra una risata e l’altra, tra una battuta e una frecciatina, mentre difende quello spazio di lavoro con le unghie e le cosce, affiorano le speranze disattese di una vita che sarebbe potuta essere qualcos’altro, ma che ora deve restare aggrappata a quella statale, a quella sedia di plastica, alla pioggia che lava via un po’ di squallore, ma solo un po’.
A seguire subito dopo troviamo Nicola, magnaccio interpretato in questa messinscena da William Volpicella, che racconta il suo ingresso nel giro della prostituzione quasi come un percorso di redenzione: da viscido spacciatore a “onesto” pappone. Quello che è ovviamente costruito come un paradosso si sviluppa attorno alla deumanizzazione delle prostitute, trattate alla stregua di capi di bestiame, per le quali deve essere chiaro chi è il padrone, a suon di botte. Con grande sarcasmo, il testo scritto da Marco Grossi propone il retroscena del protettore che esprime uno dei nodi più controversi del crimine: la dicotomia tra amore per la famiglia e disprezzo per la dignità altrui. Ed eccolo quindi a preoccuparsi, come ogni buon padre, che la sua bambina possa indossare un abito da prima comunione di tutto rispetto, progetto ostacolato da una prostituta ribellatasi alla sua condizione e che gli nega quel “sacrosanto” guadagno. La recitazione è pulita, umile, come una chiacchierata diretta allo spettatore, con cui condivide pro e contro del lavoro. “Esiste un modo di giusto di fare le cose e uno sbagliato”, afferma. A noi decidere lui da che parte si trova.
Nel terzo monologo cambiamo completamente scenario: Marianna De Pinto ci porta nell’ambiente professionale e esclusivo delle escort, poltrona girevole inclusa, con una lei che ci fissa come se dovessimo affrontare un colloquio. Incarnando la figura della donna in carriera, sicura e potente, il personaggio si confida nell’ambito di un’intervista, impostata come un falso dialogo dove l’intervistatrice non è in scena, ma forse possiamo immaginarcela attraverso le parole pungenti e arroganti della escort. Siamo noi quell’intervistatrice muta, intenti a curiosare in quello che ci sembra un fenomeno del tutto moderno (quando di moderno ha solo il nome) e forse spinti da un pizzico di invidia perfettamente comprensibile: fiumi di denaro, migliaia di euro per un solo weekend, semplicemente per aver detto sì. E a questo punto che vacilla la nostra immagine della vittima del sesso: e se fossimo noi i veri sfruttati, con sogni e ambizioni accartocciati e venduti, ostinatamente a convincerci che la prostituzione è sporca e sbagliata? Intanto lei domina la scena, con movimenti ampi e circonventori: ci ha venduto il suo servizio e ce l’ha venduto proprio bene (ammesso di poterselo permettere).

Foto Maria Grazia Morea

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I due monologhi successivi, entrambi scritti da Valeria Simone (che è anche ideatrice e dramaturg di Sworkers) si addentrano in una foresta oscura e mal esplorata: la prostituzione minorile. Da una parte scopriamo la sfrontata ed esasperata ricerca di attenzioni che portano l’adolescente interpretata da Erika Lavermicocca prima verso le videochat sessuali e poi, neanche troppo gradualmente, verso incontri sessuali a tutti gli effetti. In contrasto con il suo aspetto da idol, completo di microfono e di movenze da showgirl, intenta a soddisfare le voglie di chi la cerca online, spicca il piccolo orsacchiotto bianco che porta con sé. Alle confessioni verso il pubblico sull’attività nascosta che la fa sentire desiderata e adulta, si alternano fredde considerazioni verso la madre, incolpandola di fatto della deriva delle sue azioni. È quello che poi affiora immediatamente nelle cronache sulle baby prostitute e che non possiamo fare a meno di pensare noi tutti: i genitori dove sono? In questo caso sono nella stanza accanto e non si accorgono di nulla. Noi ce ne accorgiamo? Lei ha un microfono, magari stavolta la sentiamo.
Tutt’altra atmosfera si respira invece nella scena con Marialuisa Longo, dove è la terra a monopolizzare l’attenzione dello spettatore. Quel piccolo mucchietto di terreno, dove lei si inginocchia, vestita solo di una semplice casacca marrone e dove inizia gentilmente a seminare. Semi di nuove speranze, di uno straccio di una seconda vita, visto che la prima non si è rivelata magnanima. Costretta da bambina a diventare una schiava sessuale e strappata anche alla sorellina, non possiamo che augurarle che ci sia davvero un nuovo germoglio anche per lei. L’amara consapevolezza però è sulle sue labbra: “Potrei andarmene adesso, ma dove vado?”. L’immobilità è proprio dominante in tutto il pezzo: rimane ferma, rigida, con la voce lievemente tremante, un tronco svuotato che non può scegliere dove crescere.  Interessante la conclusione del suo monologo dove torna il manichino del prologo. Questa volta è accudita e protetta da Manuela, che con le sue carezze sembra volerle sussurrare: “Non siamo più sole, non siamo più schiave.”
A chiudere il cerchio aperto all’inizio dello spettacolo, l’assolo coreografico di Maristella Tanzi, nel quale impersonifica una bambola sessuale. Dalla posa iniziale, rannicchiata e contorta, come se qualcuno l’avesse gettata maleducatamente per terra dopo l’uso, trova faticosamente le energie, gli scatti e le giunture giuste per mettersi in piedi. Forse però è troppo usurata o il suo corpo artificiale è troppo snodato per non cadere, per non scivolare continuamente nelle posizioni più gettonate dai suoi acquirenti. Una performance dalla struttura fratturata e spezzata, dove emerge tutta la fragilità e sporadicità del suo esistere: una figura che al ritmo dell’incessante ansimare che fornisce il tappeto sonoro al pezzo, racchiude tutte le anime del sesso finora incontrate.
Sex workers per scelta, per fama, per infamia, ma prima sempre attenzione al cliente. Parola di capitalismo.

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