Manlio Boutique

Nella complessa filmografia del regista americano, divisa in due tra il prima e il dopo Big Fish, il nuovo film è un gradevole remake che gioca sui binari della commozione e della prevedibilità.

di Luca Taiuti

La locandina

La locandina

Max Medici, proprietario di un circo, assume l’ex star Holt Farrier insieme ai figli Milly e Joe chiedendo loro di occuparsi di un elefante appena nato dalle orecchie sproporzionate, che è diventato lo zimbello di un circo già in difficoltà. Ma quando si scopre che Dumbo sa volare, il circo inizia a riscuotere un incredibile successo, destando l’interesse dell’imprenditore V.A. Vandevere, che porta Dumbo con sé nel suo nuovo, strabiliante parco di divertimenti: Dreamland. Dumbo vola sempre più in alto insieme all’affascinante e spettacolare trapezista Colette Marchant, finché Holt non scopre che, a dispetto delle apparenze, Dreamland è pieno di oscuri segreti.
Che Tim Burton sia uno dei registi più complessi della storia recente, e che i suoi film abbiano rappresentato un corto circuito all’interno dell’industria statunitense negli anni ’90, è un fatto. Che esista un cinema di Tim Burton prima e uno dopo Big Fish (2003), suo straordinario testamento che rappresenta quasi una linea di demarcazione tra una fase autoriale più personale e una molto più a servizio delle produzioni in cui ha operato, è una certezza. Lontano anni luce dai Beetlejuice – Spiritello porcello (1988), dai suoi due Batman (1989 e 1992), da Edward mani di forbice (1990), da Ed Wood (1994), e da Mars Attacks! (1996), il “nuovo” Burton del nuovo millennio, che pure qualcosa di molto buono ha proposto con La sposa cadavere (2005) e Frankenweenie (2012), non a caso due film animati, è un regista che ha smarrito parecchio di ciò che lo aveva reso veramente speciale, unico per certi versi, sottraendo qualcosa alla sua vena artistica ma arricchendo notevolmente le sue doti registiche. Date queste premesse, Tim Burton realizza Dumbo, attesissimo remake del live action del celebre film in animazione del 1941, grande classico per grandi e piccini prodotto da Walt Disney. A proposito proprio di Disney, Tim Burton oggi è di nuovo sotto contratto con la major statunitense (che bazzica da sempre) che lo lanciò sin dai tempi di quel Nightmare Before Christmas (1993), entrato di diritto nell’immaginario collettivo come bigliettino di visita del complesso universo burtoniano. Il fatto che all’epoca la regia del celebre film animato non fu affidata proprio a lui bensì a Henry Selick (ma sappiamo che il progetto tutto è frutto del genio di Burton) e il fatto che la Disney decise di investire “solamentente” in una coproduzione con Touchstone Pictures, testimonia probabilmente che già all’epoca c’era qualche reticenza da parte della casa di produzione, che temeva fortemente la tendenza ai toni dark verso cui andavano le sue opere, che poco si sposavano (e si sposano ancora) coi canoni generalisti a cui la multinazionale punta da sempre. La storia di Tim Burton con la Disney riassume bene quella che è stata una frenata, se tale si può definire, della crescita ulteriore di Burton come autore, e che ha fatto del suo talento un mezzo al servizio di un marchio, di un franchise, di un logo capace recentemente di schiacciare, tranne qualche eccezione, il livello di opere potenzialmente brillanti.
Detto ciò, Dumbo è senza dubbi una dei film più intriganti e meglio riusciti dell’ultimo filone burtoniano.  Gradevolmente corretto in ogni sequenza della sua grammatica filmica, seppur sciattino nella commistione tra effetti speciali e live action, e questa è una gran delusione, il film presenta diversi momenti emozionanti, alcuni freddamente calcolati, altri più coinvolgenti, soprattutto per i più piccoli, che molto prevedibilmente si abbandoneranno a degli appassionati applausi in svariati momenti. In tal senso, le riconoscibilissime sinfonie di Danny Elfman, autore di tutte le maggiori colonne sonore dei film di Tim Burton, conferiscono quel senso di meraviglia che ha sempre contraddistinto il mondo della fantasia dei suoi lungometraggi, e risvegliano la nostalgia dell’amatore. Momenti emozionanti colorano una tavolozza fatta di composizioni straordinarie, molte delle quali sembrano uscite dai quadri di Edward Hopper, più che essere scene di un film. Il cast è composto di un parterre straordinario, con alcune delle personalità più forti di tutta la filmografia del regista californiano: il comicissimo Danny De Vito nell’ironico e squallido Max Medici; l’intenso Colin Farrell è Holt Farrier, il padre vedovo in cerca di riscatto; la giunonica e sensuale Eva Green è la buona Colette, autentica chiave di volta della vicenda; il freddo e  inflessibile Michael Keaton è il perfido V. A. Vandevere. I soliti sensazionali bimbi prodigio sono Nico Parker e Finley Hobbins, nei ruoli di Milly e Joe, cui è affidata tutta la tenerezza con cui lo spettatore, soprattutto il più piccolo, s’identifica, e a cui talvolta è affidato qualche spiegone di troppo, che banalizza il livello della drammaturgia, una coppia perennemente unita, a tratti didascalicamente schierata, come fossero le celebri gemelline di Shining. Continuamente in bilico tra qualcosa di fortemente malinconico e qualcos’altro di molto scontato, con un finale da “american dream” molto discutibile che minaccia forse un sequel, in Dumbo la nostalgia guida Tim Burton in un lungo excursus dentro il suo cinema, di cui è rimasto forse smarrito, cominciando dalle fonti di luce negli occhi dei suoi personaggi che tanto ricordano il suo recente complesso Big Eyes (2014) e finendo con alcune scene, come la salita di Dumbo sulla nave verso la libertà, che tanto ricorda qualcosa di già visto in Mars Attacks!.

Tim Burton

Tim Burton

Le parti più oscure della trama, i temi più scottanti, quelli del bullismo, della solitudine, della diversità, punti forti di quel film animato che ha scritto letteralmente la storia, tutti quelli che ci si aspetta possano essere terreno fertile per la verve creativa di Burton, scivolano via rapidamente in un baratro di piattume che rischia a più riprese di deludere pure troppo.
L’interesse dello spettatore viaggia su due linee parallele che s’intersecano: le priorità. Chi ogni volta va al cinema perché si aspetta la tipica favola dark burtoniana di un tempo, dai toni comici e tetri, coi suoi esseri mostruosi e magici, resterà parecchio deluso, perché Dumbo è un film fatto per chi è capace di accettare solamente qualche reminescenza dell’immaginario del suo autore e che riesce a guardare oltre, accettando come forse quell’universo creativo si sia concluso o, meglio ancora, si sia messo al servizio dell’impresa che gli ha dato vita, che è una scelta precisa e rispettabile.  I temi burtoniani e quelli disneyani s’incontrano e si compensano in un pastiche dubbio e un po’ infantile, un film per famiglie ben confezionato a cui mancano i toni più seri, un’opera che mira a un obiettivo “facile”, ossia il compimento della sceneggiatura e poco più, qualcosa a cui non siamo abituati a dare valore, soprattutto quando la firma è quella di un autore così estroverso. “Dumbo non vola senza una piuma”, si recita una battuta del film, così come quest’opera non decolla senza la verità del suo regista. Un cinema prima e un cinema dopo Big Fish, si diceva. Questo film appartiene senza dubbi al secondo gruppo, non solo per motivi cronologici, con la potenza che ancora provoca l’eco di quel primo mondo, ma con limiti evidenti che ne sono emersi nel corso del tempo nel secondo, niente di più, niente di meno, peccato.

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