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Frutto di un percorso creativo condiviso, con questo nuovo lavoro diretto da Eduardo Di Pietro il Collettivo Lunazione trasforma un piccolo paese del vesuviano nella scena in cui si muove il protagonista Cesare, tra atmosfere assurde e dinamiche tragiche.

di Irene Bonadies

Foto di Mauro Frojo

Foto di Mauro Frojo

Il nuovo spettacolo del collettivo Lunazione firmato da Eduardo Di Pietro (in scena da stasera al 12 maggio al Teatro Serra di Napoli) è «frutto dell’organizzazione e della strutturazione del materiale autoriale elaborato dagli attori attraverso un percorso creativo condiviso» e ruota intorno ad un pozzo, precisamente il pozzo di Santa Maria Del Pozzo, paesino dell’entroterra vesuviano, dove vivono i protagonisti della pièce. Come un vortice di acqua, il pozzo attirerà a sé non solo i vari personaggi ma anche le loro vite, le loro illusioni e le loro paure facendoli precipitare nel buio della scena finale.
Protagonista cardine del lavoro (selezionato per il Premio Scenario 2017, per l’edizione 2019 del Roma Fringe Festival e del San Diego International Fringe Festival e vincitore della residenza artistica “Emergenze Romane 2018 – Teatri di Roma”) è Cesare, un affermato parrucchiere che gestisce con la moglie Titta (interpretata da Giulia Esposito) un salone proprio in centro, amato dalle donne che lo frequentano non solo per la qualità del suo lavoro ma anche per la sua innata propensione all’ascolto che le fa sentire speciali. Tra le sue più devote clienti ci sono l’assessore comunale Carmen, la catechista Rosaria e la psicologa Assunta, tre donne che tra tinta e messa in piega amano andare da Cesare a parlare dei loro impegni, problemi e ambizioni. Ogni volta l’appuntamento dal parrucchiere diventa, dunque, l’occasione per confidarsi, confrontarsi e farsi rincuorare dalle mani e dalla gentilezza del proprietario. D’altro canto, per Cesare il negozio racchiude tutte le sue aspirazioni, i sogni, gli affetti: è una sua creatura che rende le donne felici, ma dal momento in cui avviene il sogno anche il suo adorato negozio diventa fonte di supplizio. Con il passare dei giorni, infatti, l’uomo diventa sempre più distratto, assente e poco incline a chiacchierare e scherzare: un pensiero che da principio gli occupa distrattamente la mente inizia, poco a poco, a tormentarlo sempre di più facendogli perdere la pace e il sonno, e di conseguenza le sue clienti, il negozio e la voglia di vivere.

Foto di Mauro Frojo

Foto di Mauro Frojo

Dal buio della notte nasce il sogno e al buio del pozzo lo porta il tormento scaturito dagli eventi che si susseguono da esso. Sebbene sia, infatti, apparentemente solo un semplice sogno quello che una fatidica notte Cesare fa, da quel momento iniziano per lui una serie di riflessioni – che anche chi osserva potrebbe sentire come proprie -, che lo costringono a pensare ripetutamente alla propria vita, alle scelte passate e a quelle future. La voglia di avere una esistenza normale inizia, così, a collidere con le pressioni che arrivano dalle persone che gli sono intorno, ovvero la moglie, le clienti e l’intero paese che vorrebbero non solo tornare alla loro quotidianità ma anche ricavare beneficio dalla situazione creatasi risolvendo in maniera sbrigativa e plateale, la questione determinata dal sogno.
Questa dicotomia tra i desideri personali e le pressioni esterne, che è spesso presente in ognuno di noi, viene portata sulla scena alle sue estreme conseguenze enfatizzando sempre più le divergenze tra la sfera più intima e personale e quella pubblica, sia attraverso i dialoghi/monologhi sia ricorrendo a una regia dal ritmo concitato che alterna i momenti angosciosi di solitudine e riflessione di Cesare e quelli agitati e nervosi delle donne.

Foto di Mauro Frojo

Foto di Mauro Frojo

Del resto, tratto caratteristico dei lavori di Di Pietro, così come avevamo già osservato in Jamais vù, è proprio il sapiente bilanciamento di momenti diversi che corrispondono a stati d’animo e registri stilistici differenti, in cui si avvicendano momenti di brillante ilarità a momenti di lucida introspezione attraverso la successione di quadri scenici che in maniera anche parallela permettono di portare avanti la narrazione corale. La scelta dei giovani e validi attori come protagonisti e la convincente interpretazione dei personaggi a cui danno corpo permette, poi, al testo e alla regia di essere sapientemente rappresentata sul palco: le tre attrici/clienti (Martina Di Leva, Cecilia Lupoli e Monica Palomby), ognuna convincente nel ruolo, esaltano sia l’aspetto nevrotico che comico della drammaturgia realizzando siparietti di pura comicità che inizialmente si sposano e poi si contrappongono alla figura del più mite e altrettanto riuscito protagonista (Alessandro Errico).
Ritorna la capacità del teatro di farci sorridere, in questo caso anche proprio ridere di gusto, ma al contempo di farci riflettere facendoci porre le stesse domande sulla vita, il suo significato e quello che noi vogliamo darle, che il protagonista si pone nella storia in questione, con un tono leggero (ma non stupido) che non vuole assurgere ad alcun livello didascalico fornendo risposte o certezze, proprio come il finale dello spettacolo medesimo.

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