“La Dama bianca semuà”: cronaca di un adulterio e di una passione a due ruote
Al Teatro Sannazaro il debutto del lavoro di Igor Esposito che ripercorre la storia d’amore e scandalo tra Fausto Coppi e Giulia Occhini, scegliendo un punto di vista che però rischia di penalizzare la tragica e innata teatralità della relazione più clamorosa degli anni ’50.
di Ileana Bonadies
Se la realtà non avesse superato la fantasia diventando cronaca, una storia d’amore come quella tra Fausto Coppi e Giulia Occhini avrebbe certamente – lavorando di immaginazione – ispirato la penna di uno scrittore, divenuta un successo cinematografico oppure messa in scena a teatro.
Era solo questione di tempo.
E infatti, tra le possibilità, è all’ultima che ha scelto di dedicarsi Igor Esposito scrivendo e dirigendo “La Dama bianca semuà. Suite Coppi”, con protagonisti Vincenzo Nemolato nel ruolo dell’iconico ciclista tra i più forti di tutti i tempi, Flo alias Floriana Cangiano in quelli della Occhini e Lara Sansone in quello di una portinaia. Si avete letto bene: una portinaia. Non cogliete il senso della figura? Proviamo allora a raccontarvelo partendo dalle intenzioni, per poi dire la nostra.
Come si intuisce dalle note di regia, lo spettacolo – al suo debutto nella sezione SportOpera del NTFI 2019 – intende puntare il focus sulle dicerie, i pettegolezzi e le accuse che la scandalosa – per l’epoca – relazione tra il campionissimo e la soprannominata dama bianca – già moglie e madre, che in seguito all’inizio della relazione con Coppi venne denunciata di adulterio dal marito e costretta a 4 giorni di carcere –, provocò infiammando l’opinione pubblica; e sceglie di farlo usando come espediente la figura di colei che nell’immaginario più iconografico è la depositaria di tutte le chiacchiere che un caso eclatante suscita: la portinaia, per l’appunto. A cui viene conferita estrazione napoletana (viste forse le origini di chi ha dato vita al personaggio e al contesto in cui il lavoro sarebbe dovuto approdare, perché altrimenti si fatica a trovare un nesso che non sia il voler enfatizzare la natura pettegola del ruolo) e affidato un trascorso similare a quello della celebre coppia essendo anche lei innamorata di un ciclista, come si scoprirà alla fine.
E qui, già si palesano quelle che appaiono essere le prime forzature, non funzionali e necessarie alla trattazione di quella che è una pagina di amore e sport indimenticabile, di cui molto si è letto e detto ma che avrebbe incontrato ulteriore interesse e curiosità nel pubblico, pur senza ricorrere ad escamotage particolari, qualora si fosse scelto di raccontare aspetti meno indagati e noti, dall’indubbio – però – potenziale drammatico (teatralmente parlando) che dunque su un palcoscenico avrebbero trovato la giusta dimensione per essere condivisi e rispolverati.
Invece, al legame tra i due sembra essere lasciato, in proporzione, davvero poco spazio, sebbene assolutamente calzanti risultino le interpretazioni dell’ottimo Nemolato – similare finanche nell’aspetto fisico all’emblema del ciclismo in Italia – che restituisce con veridicità al suo alter ego tutta la forza che lo contraddistingue in pista, ripercorrendone pedalando le origini contadine, i successi, i drammi familiari, e quella della sua amata, una fiera e misurata Flo, che regala controllata ma intensa passione alla sua Giulia, affidando a tratti al canto – che molto di più avrebbe potuto rappresentare la novità del racconto, avendo a disposizione una voce possente e soave al contempo come quella della cantautrice partenopea, ormai sempre più esponente della musica internazionale – il suo amore sofferto ma irremovibile.
Inoltre, mentre la storia si dipana ai nostri occhi, evidente si fa la scelta di dar vita a tre monologhi che solo in alcuni passaggi si fanno dialogo ma comunque a distanza, inspiegabilmente tracciando una lontananza tra i tre personaggi come fossero linee rette destinate a non incontrarsi mai; tre universi differenti il cui mancato mettersi in reciproco rapporto se trova una giustificazione nei confronti del terzo elemento narrativo che in quanto tale è giusto resti voce lontana ed esterna, e megafono di altre voci che commentano, denigrano, giudicano, non pensiamo trovi invece scusanti nel legame che ci si aspetta tra i due amanti, che mai si sfioreranno, né guarderanno negli occhi per tutta la durata della rappresentazione.
E allora ecco che l’annunciata “pièce in forma di suite”, pur se portata a termine con decoroso impegno, sia sul piano drammaturgico che attoriale, senza sbavature, ad eccezione di una memoria che avrebbe richiesto più lavoro (anche a dispetto del poco tempo a disposizione) per evitare la mai piacevole presenza in scena del copione che si è costretti a sfogliare a ogni avanzare delle battute, finisce col rivelarsi – e ce ne dispiace perché le aspettative erano altre – un “vorrei ma non posso” che la priva di una personalità convincente. Nonostante naturalmente pregno di spunti su cui far lavorare la creatività in fase di scrittura e direzione fosse il canovaccio di partenza: una storia con in sé già tutti gli elementi della tragedia, su cui il destino non ha avuto paura di osare fino alla fine, a differenza di quanto invece ha forse temuto chi ne ha fatto un adattamento teatrale.