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Tra empatia e immedesimazione, Mario Gelardi chiude attori e spettatori in gabbia per raccontare un destino, quello dei tanti rifugiati respinti o male accolti, e per sollecitare un dialogo, che faccia dell’accoglienza e dell’ascolto il punto di partenza di ogni nuovo percorso di vita.

di Irene Bonadies

Foto Antonio Florio

Foto Antonio Florio

La migrazione è insita nella storia dell’uomo da sempre: sia Adamo ed Eva sono stati raminghi nella Bibbia che l’Homo sapiens nella preistoria alla ricerca di nuovi luoghi in cui stabilirsi.
L’uomo ha connaturato nel proprio DNA la spinta a individuare la migliore condizione in cui stare, la ricerca della Terra promessa, la ricerca della felicità. È quindi difficile accettare che ad oggi il concetto di migrazione non sia accettato da una società fatta da uomini che continuano ancora a spostarsi. Certo, è in atto un duplice e antitetico fenomeno di migrazione: la società benestante si sposta in treno o in aereo, spesso in prima classe, con un passaporto e magari con già un contratto in tasca. La gran parte del mondo, invece, si sposta a piedi compiendo viaggi che nessun viaggiatore, nemmeno il più temerario, farebbe mai. La società benestante si sposta quasi sempre in cerca di un lavoro migliore, verso realtà più stimolanti e stipendi più alti. La gran parte del mondo si sposta perché la propria casa non esiste più distrutta dalle bombe e dalle guerre, perché la fame e le malattie decimano la propria famiglia, perché dove sono non è più possibile neanche sognare e allora devono solo mettere il fiato in valigia e andare.
629 – Uomini in gabbia, lo spettacolo diretto e coordinato da Mario Gelardi, andato in scena in prima assoluta lo scorso 19 e 21 giugno nel Cortile d’onore di Palazzo Reale, nell’ambito del Napoli Teatro Festival 2019, durante la settimana mondiale del rifugiato, vuole prendere una netta posizione nei confronti di questa scottante realtà e compiere un lavoro di coesione tra diversi paesi, in modo da creare un dialogo che nella politica e nella società manca. «Mi sono interrogato molto in questi ultimi mesi su cosa potesse fare il teatro — racconta Gelardi —, in particolare su cosa potessero fare gli autori teatrali. Se la politica non collabora, se i paesi europei non si parlano, noi autori teatrali, possiamo farlo, utilizzando la forza del teatro».

Foto Antonio Florio

Foto Antonio Florio

Nasce, così, un progetto corale che prende spunto da un evento di cronaca: domenica 10 giugno 2018, il governo italiano non ha concesso alla nave Aquarius della flotta della Ong Medici Senza Frontiere di fare ingresso in un porto italiano. 629 sono le persone a bordo di quella nave che cercano un approdo e – casualità! – 629 sono anche i parlamentari italiani che decidono della loro sorte. Lo spettacolo vede in scena un nutrito gruppo di giovani e talentuosi attori (Vincenzo Antonucci, Simone Borrelli, Ciro Burzo, Riccardo Ciccarelli, Mariano Coletti, Arianna Cozzi, Anna De Stefano, Germana Di Marino, Carlo Geltrude, Gennaro Maresca, Davide Mazzella, Enrico Pacini, Alessandro Palladino, Chiarastella Sorrentino, Chiara Vitiello), che interpretano testi scritti da diversi autori: spagnoli (Marta Buchaca, Jordi Casanovas, Guillem Clua, Josep Maria Miró, Pau Miró, Pere Riera, Mercè Sàrrias, Victoria Szpunberg, Joan Yago) tradotti da Alessio Arena, anche interprete, con la sua inseparabile chitarra, di un poetico intervento live voce e note; greci (Yannis Papazoglou, Peny Fylaktaki, Tsimaras Tzanatos) tradotti da Giorgia Karvunaki e italiani (Emanuele Aldovrandi, Alessio Arena, Tino Caspanello, lo stesso Gelardi, Domenico Loddo, Fabio Pisano).

Foto Antonio Florio

Foto Antonio Florio

Il risultato è uno spettacolo costituito da tanti monologhi: ognuno è una storia, ognuno racchiude e descrive un frammento di mondo, e tutti insieme provano a dar voce e a gettare luce su qualcosa che accade ogni giorno sotto i nostri occhi. Donne, madri, padri, figli che si raccontano – da dove vengono cosa provano e anche cosa cercano – hanno tutti sofferto e hanno tutti un desiderio: sopravvivere. C’è chi è partito per raggiungere il padre chi per portare in salvo il figlio che porta in grembo o semplicemente il proprio nome, ovvero ciò che resta della propria famiglia. Hanno macinato chilometri, mangiato terra, attraversato deserti di sabbia, poi deserti di acqua ma ciò che hanno raggiunto è, spesso, solo un nuovo deserto: un deserto di sentimenti. La messinscena, attraverso il racconto di storie di uomini rinchiusi in un campo di rifugiati e di uomini che lavorano intorno ad un campo di rifugiati come guardiani o fotografi, prova dunque a indurre un sentimento di empatia negli spettatori, anch’essi rinchiusi nello stesso recinto. E lo fa creando una tessitura drammaturgica che passa ritmicamente da una voce ad un’altra, da un angolo all’altro della gabbia, mentre chi osserva è continuamente rapito dalle narrazioni che gli girano intorno creando un vortice di emozioni che avvinghiano e costringono ad ascoltare e pensare.
Cambi di registro, cambi di direzione, cambi di tono mantengono alta l’attenzione senza soluzioni di continuità e le quasi due ore di spettacolo corrono veloci fino alla fine di quella che si rivela essere una esperienza condivisa, tra interpreti e pubblico, unica, durante la quale – forse solo un po’ troppo fugacemente perché se ne apprezzi il ruolo cruciale -, incontriamo anche un uomo che ha davvero vissuto questo dramma sulla propria pelle.
Al termine, ad accompagnarci fuori, oltre la grata, sono le tante testimonianze ascoltate, la melodia di una canzone, il ritmo di una poesia, l’intensità di una preghiera umana, che si auspica abbiano seminato nei cuori di ciascuno quel seme di fratellanza che dovrebbe rendere il nostro cuore un luogo rigoglioso in grado di offrire rifugio a chi ne ha bisogno.

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