“La mia vita con John F. Donovan” di Xavier Dolan [CINEMA]
Per il suo primo lungometraggio inglese, l’enfant prodige Xavier Dolan prende spunto dalle sue vicende personali e confeziona un ambizioso melodramma che finisce per diventare un racconto banale e un’opera morbosa, forse il suo peggior film.
di Luca Taiuti
Rupert Turner, uno scrittore e attore di successo, rilascia un’intervista alla giornalista Audrey Newhouse, in cui racconta l’amicizia epistolare con la star del cinema John F. Donovan, di cui è sempre stato grande fan, iniziata quando aveva undici anni e durata cinque anni in gran segreto. Nello svelare i contenuti delle loro lettere, Rupert narra la vita tormentata di Donovan che, tra compromessi e pregiudizi, finirà solo e in disgrazia fino al suicidio poco tempo dopo il coinvolgimento in una serie di scandali diventati di dominio pubblico.
Spiacenti, neanche stavolta è lo Xavier Dolan di Mommy. Basterebbe questo a sintetizzare La mia vita con John F. Donovan. Il problema sarebbe capire: chi è veramente lo Xavier Dolan di Mommy o che regista è veramente Xavier Dolan? L’enfant prodige canadese, ormai a trent’anni sempre meno enfant e ancor meno prodige, è lontano da quel tripudio che gli valse il Premio della giuria alla 67ª edizione del Festival di Cannes ex-æquo con Adieu au langage di Jean-Luc Godard. Lo si era già intuito da quel dramma sentimental-familiare di È solo la fine del mondo (2016), che pure ad alcuni era piaciuto, beati loro, che qualcosa ormai non va più in lui come prima. E come quello, anche La mia vita con John F. Donovan è un film che mette a dura prova l’attenzione, la pazienza, e le aspettative dello spettatore, che immagina qualcosa di straordinario e che finisce per doversi accontentare di scene dai tempi dilatatissimi riempiti da toni fortemente solenni, quasi da soap, che sfociano nella prosopopea più insopportabile.
Il primo problema, infatti, è proprio la drammaturgia. Omosessualità più e meno latente, rapporto difficile madre-figlio, crisi violente e riappacificazioni e una tremenda sensazione di sentirsi insoluti: sono questi i tormentoni da cui anche stavolta parte il racconto e rappresentano i leitmotiv consunti della scrittura dolaniana, fin dai tempi di J’ai tué ma mère (2009). Stavolta alcuni buoni momenti d’intensità recitativa finiscono per essere rovinati da dialoghi infantili, che sfoggiano una banale retorica di forma e di contenuti, il discorso sull’importanza di essere se stessi a tutti i costi ne è un degno esempio.
Tutto comincia da una vicenda ispirata a un fatto autobiografico del regista, di cui è nota l’ammirazione, sin da ragazzino, per Leonardo Di Caprio in Titanic, il film che più ha amato. E così la passione di Dolan per Di Caprio, a cui scrisse senza risposta, diventa quella di Rupert per Donovan, che forse dovrebbe rappresentare i suoi desideri più reconditi. Del celebre film di James Cameron questo non è l’unico aspetto che torna, dato che un reiterato citazionismo vede il racconto di Rupert adulto alla giornalista come una reinterpretazione, o parodia, del racconto che la Rose anziana fa della sua storia in Titanic.
C’è un tentativo, più o meno velato, di criticare l’alienato mondo delle super serie tv, che chiudono gli attori-divi in una bolla di apparenze, debolezze e forti insicurezze, e di un’idealizzazione eccessiva da parte del pubblico. Questo è un aspetto interessante, e forse sarebbe stato uno dei punti più interessanti dell’opera, se non si fosse deciso di ignorarlo. Il lavoro registico e drammaturgico è più incentrato sulle vicende emotive dei personaggi, anche se non c’è un reale approfondimento sugli stessi e non si empatizza mai con uno di essi. Xavier Dolan sembra pensare che per coinvolgere lo spettatore basti l’intreccio tra le vicende personali John Donovan e il suo più grande fan Rupert, la cui improbabile corrispondenza diventa una forzatura, un espediente narrativo irrisolto. Perché Donovan decide di rispondere proprio alla lettera del piccolo Rupert e di continuare a farlo per 5 anni? Di questo, e di altro, non è dato sapere.
La regia prende la strada stucchevole di utilizzare molti primissimi piani, secondo problema legato all’estetica del film, una serie di “volti” tra luci e ombre di cui un certo tipo di cinema intimista, a cui questo film sicuramente si ispira, si è tanto nutrito. Ma siamo ben lontani dalla cifra poetica e contenutistica di John Cassavetes, Pier Paolo Pasolini o Carl Theodor Dreyer, per citarne solo qualcuno. In La mia vita con John F. Donovan il linguaggio filmico ha delle note positive che s’incontrano-scontrano con gli aspetti più ingenui, soprattutto all’inizio, con scelte musicali e grafiche ultra-pop e trash, che alimentano il beneficio dubbio.
Così si arriva al terzo grande problema dell’opera, ossia il montaggio, a quanto pare travagliato e fatto di ripensamenti determinanti, al punto da tagliare completamente un personaggio co-protagonista interpretato nientedimeno che da Jessica Chastain. Questo costringe il film a una disorganizzazione complessiva, una mancanza di struttura ed effetti che possano attutirne l’urto della caduta. Per il resto del cast invece, quello per fortuna non tagliato, Dolan ha a disposizione nomi prestigiosi, tra cui i divi delle maggiori serie tv del momento come Kit Harington (Il trono di spade), imbalsamato e incapace di reggere un ruolo così, la brillante Thandie Newton (Westworld), i belli e salmonici Ben Schnetzer (La verità sul caso Harry Quebert) e Chris Zylka (The Leftovers), affiancati da alcune certezze come Natalie Portman, Susan Saradon, straordinaria mater dolaniana, Kathy Bates, e il tredicenne Jacob Tremblay, prodigio già apprezzato in Wonder, la cui performance è probabilmente tra le note più positive del film.
La mia vita con John F. Donovan si rivela tutto sommato un lavoro confuso ed estremamente ambizioso, che testimonia le ansie più intime e autoreferenziali del suo regista, che era incappato nello stesso errore già nel citato È solo la fine del mondo. Un racconto incoerente e dilatato oltre il dovuto che assedia lo spettatore con una noia insopprimibile generata da protagonisti di un melodramma assurdo, che finisce per diventare il racconto banale di un’opera morbosa, probabilmente il peggior film di Dolan. Che fine hanno fatto la freschezza, l’energia e il fervore dimostrati in Laurence Anyways (2012), Tom à la ferme (2013) e soprattutto Mommy (2014)? Errori, i suoi, che sicuramente possono aiutarlo a tornare sui passi dei suoi primi fasti. Possono solo due film cancellare quanto di buono fatto dal giovane regista canadese? Sicuramente no. E allora speriamo di poter riavvolgere presto il nastro e ripartire da ciò che ci ha fatto amare il Xavier Dolan talento. Magari potremo farlo dal suo prossimo film, già realizzato, Matthias & Maxime, un ritorno alle origini canadesi e alla direzione-interpretazione, presentato all’ultimo festival di Cannes e molto presto anche nelle nostre sale.