Essere napoletani. Poteri speciali ne abbiamo?
Con “Microstorie” al via, per il nostro giornale, una nuova rubrica a cura della scrittrice Marina Cuollo. Libri, cinema, storia e cultura al centro dei brevi racconti in esclusiva con cui andremo alla scoperta di Napoli e dei suoi protagonisti, tra seria ironia e irriverente sincerità.
Parlare di Napoli non è mai semplice. Così come non è semplice comprenderne il fascino, figuriamoci le complesse dinamiche. Ma per inaugurare questa rubrica tutta napoletana, ho pensato di mostrare il punto di vista di una microdonna nata e cresciuta ai piedi del Vesuvio.
Essere napoletani è un marchio di fabbrica, un lavoro artigianale che si tramanda di generazione in generazione, come quello della ceramica di Vietri.
La napoletanità o si ama o si odia. Tutto ciò che riguarda Napoli non ha vie di mezzo, mai, tant’è che appena possono i napoletani estremizzano.
A Milano può piovigginare, qui no, mai, che pure se vengono due gocce noi diciamo che piove a “scatafonno”, ovverosia diluvia.
Magari, voi di Trieste, vi fate due spaghettini; noi no, mai, che a Napoli “due-due” sta per una porzione sufficiente a sfamare un rione.
Voi di Brescia, poi, siete morigerati e usate l’aggettivo “carino”; noi no, mai, che a Napoli o uno è la-fine-del-mondo oppure è una chiavica.
Ecco perché la napoletanità è un modus vivendi che o si ama o si odia.
Durante la mia adolescenza, per esempio, io proprio non la sopportavo: la trovavo ristretta, castrante e limitante e, pur non sapendo ancora quali sarebbero stati i miei obiettivi, ero sicura che questa città mi avrebbe impedito di raggiungerli.
Con gli anni, la cingolo minuta qui presente ha imparato ad apprezzare la bellezza dell’essere partenopea e a farne anche un vanto. Che, intendiamoci, non si tratta della solita roba in stile “sole, pizza e mandolino”, no, ogni napoletano è un napoletano a sé, intriso degli aspetti più particolari della sua famiglia. Una famiglia tra l’altro sempre numerosa, numerosa assai. Ho il sospetto che le famiglie napoletane abbiano risorse riproduttive nascoste, secondo me ad anni alterni si riproducono per gemmazione.
Ma com’è essere napoletani nella mia di famiglia?
Essere napoletani nella mia famiglia ti regala poteri speciali, come quello di saper distinguere una mozzarella casertana da una battipagliese, o di fulminare con lo sguardo chiunque rifiuti/non apprezzi e dunque osanni una parmigiana di melanzane al punto da farlo sentire talmente in colpa da ricorrere ad anni di psicoanalisi.
Ci sono stati amori finiti per molto meno.
Io sono cresciuta in mare, con la sabbia tra le dita e la salsedine nei capelli, e il mio nome non è un caso. Questo vuol dire che a casa mia bisogna amare il pesce in tutte le sue forme, da quello cotto a quello crudo, nomenclatura inclusa, tipo che se chiami una spigola branzino vuol dire che sei un “forestiero”.
Essere napoletani nella mia famiglia ti insegna la filosofia del maiale, ovvero che del cibo non si butta via niente. E se rimane la pasta ci fai la frittata di maccheroni, se no è peccato. Babbo è un maestro della frittata di maccheroni, campione mondiale di lancio con rigiro della frittata (ma pure delle parole) senza romperla. Tutto il resto è condito da gesti, risate, sfottò e battute, come quelle di nonna, che è la nostra personale cabarettista. Nonna è quella che fa casino con i nomi, gioca al bancolotto i suoi sogni (ma pure quelli degli altri, conosciuti e non) e si arrabbia se non finisci fino all’ultima briciola nel piatto. È quella che cresce tutti i bambini del mondo, che è intrisa di istinto materno fino alla punta dei capelli. Tutte le sue figlie, mia madre compresa, sono la copia con variante più o meno apprensiva della capostipite.
Essere napoletani nella mia famiglia ti dà diritto a un porto sicuro, un frigo pieno di cibo anche quando è vuoto, a bambini talmente pieni di energia da farti dimagrire dieci chili in un giorno, a genitori che si amano (o che si sono amati) tanto, una partita a settebello, un provolone del monaco senza precedenti.
Essere napoletani nella mia famiglia è come diceva De Crescenzo: siamo uomini d’amore, preferiamo vivere abbracciati gli uni con gli altri, piuttosto che vivere soli e non essere scocciati.
[Marina Cuollo è nata a Napoli nel 1981. È laureata in Scienze biologiche e Dottore di ricerca in processi biologici e biomolecole. Grafica pubblicitaria per scelta e mestiere, ha collaborato come autrice con il portale Pianeta Donna. Finalista della IX edizione del Concorso artistico-letterario “Il Volo di Pegaso”, ha pubblicato con Sperling & Kupfer il suo libro d’esordio, “A Disabilandia si tromba” (2017, Premio della Critica al Premio Letterario Milano International). Ha partecipato alla nuova edizione dell’antologia “La Bibbia dei non credenti” (2018, Piemme) a cura di Francesco Antonioli]