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L’importanza della complessità quale modus operandi per non chiudere se stessi e la propria professione in limitanti recinti che poco hanno a che fare con il lavor ben svolto. Una riflessione partendo dalle parole di Paolozzi e Croce.

di Luca Signorini

La copertina del libro di Ernesto Paolozzi e

La copertina del libro di Ernesto Paolozzi e Luigi Vicinanza

Vivo fin da ragazzo una dimensione dominata dallo specialismo. La mia specializzazione è il violoncello, il mio maestro insegnava violoncello, il mio ruolo in orchestra è di Primo Violoncello, mi si ingaggia come violoncellista, la materia che i miei studenti hanno scelto come primaria è il violoncello. E come me tutti gli altri miei colleghi di lavoro, e i maestri dei miei colleghi. Mi si applaude, godo della considerazione sociale tributata a chi è specialista di qualcosa. Alle feste di compleanno dei miei amici mi si chiede spesso di suonare un brano al violoncello. Mi si certifica, in ogni mio scritto, parlassi anche del futuro sbarco dell’uomo su Marte, come violoncellista.
Ma io mi chiedo: sono uno specialista? Io, la mia persona, la mia anima, il mio passato, i miei sogni, i miei sentimenti, le mie ambizioni, il mio modo di relazionarmi col prossimo, i miei ricordi più cari, i miei momenti tristi, sono quelli di uno specialista? I più importanti stimoli che ho tratto dal mondo che mi ha circondato, ciò che ho colto e che ho voluto afferrare di quel mondo, sono stimoli che hanno favorito la mia inclinazione verso un qualche specialismo? No, per niente. In me non c’è nulla di specialistico, ed è questa anima che rifiuta di essere specializzata ad avermi sorretto e salvato. Perché lo specialismo (che Ortega definì già negli anni Trenta “barbarie dello specialismo”) – e qui cito testualmente dal libro Diseguali, il lato oscuro del lavoro, di Ernesto Paolozzi e Luigi Vicinanza, Guida editori, 2018) – «immeschinisce la vita nel mentre si gonfia di presunzione e arroganza». Amo molto queste parole e cercherò di dire il perché.
Lo studio della musica classica e la sua applicazione lavorativa produce strani effetti, anomalie, che ho riscontrato molte volte: da una sana esaltazione per l’aver scoperto la maestosità di determinate mirabili partiture si è trasceso poi in un’autoesaltazione nell’averle sapute riproporre in prima persona. Non la normale soddisfazione di un lavoro ben fatto, o l’orgoglio di aver reso giustizia ad una partitura, ossia al senso più intimo di quell’opera. Parlo dell’esaltazione di chi dimentica il senso del proprio fare tenendo invece a mente solo sé stesso. Come se la musica prodotta non fosse stata scritta da un signore tedesco nato più di due secoli fa ma venisse creata da chi la sta interpretando. E anzi non si parla neanche più di interpretazione, dato che questa presupporrebbe un pensiero che andasse oltre quel singolo brano. Il musicista gode nello sciorinare le sue note e nello sciorinarle a modo suo. Da questa malata visione della musica esecutivocentrica si passa facilmente ad una serie di comportamenti sociali in linea con la malattia: esibizionismo perpetuo, assenza di autocritica, scarsa disponibilità al confronto. Non che parli di questo argomento, ma è sempre divertente rileggersi quel memorabile capitolo di Elias Canetti dedicato al Direttore d’Orchestra in Massa e Potere; vi è una tale ironia sottesa alla descrizione di quel particolare potere del Direttore d’Orchestra che questi ne esce duramente ridimensionato.
Non starò ad elencare tutti gli spunti profondissimi che si possono trarre dalla lettura di Diseguali. Mi fermo su questa pagina che riflette sullo specialismo: «Anche il mito della specializzazione diventa un mito politico, uno strumento del potere per governare indisturbato, celato dietro il paravento di una ideologia che spegne il pensiero critico divergente, che, in ultima analisi, impedisce il progresso scientifico che, nella credenza generale, dovrebbe favorire». E, per deformazione professionale, mi viene naturale riflettere sul mio mondo musicale che necessita certo di professionale specialismo ma che nello specialismo pensa di trovare giorno, notte, bello, brutto e tutte le costellazioni dell’universo. La musica non è specialismo, non può esserlo. Confinare sé stessi nel proprio ristretto ambito professionale vuol dire scivolare verso il fanatismo. Fanatismo peraltro alimentato da un pubblico acritico, che scambia la notorietà con la bravura, che declassa la bravura se non è sostenuta dalla notorietà. Come con le canzoni di Sanremo. È possibile trattare Beethoven come una canzone in cima alla hit parade estiva?
Siamo noi i responsabili, noi “operatori del settore”, come si dice. Noi che dovremmo andare in prima persona nelle scuole a sensibilizzare i ragazzi sulla grandezza di quelle partiture, sulla grandezza di quegli uomini. Noi insegnanti che non ci curiamo nemmeno della atavica mancanza di un pianista accompagnatore nei nostri conservatori. Perché siamo specialisti: io in violoncello, lui in violino, eccetera. Croce sosteneva che le università (ma anche i Conservatori e le altre istituzioni culturali) sono istituzioni utili alla trasmissione del sapere ma incapaci di formare il pensiero critico, originale, creativo. Concludo con Diseguali: «Quando si perde di vista la complessità, lo specialismo diventa da un lato irresponsabile sul piano morale, socioeconomico ed esistenziale, dall’altro, a causa dell’autoreferenzialità dentro la quale si chiude, finisce col fallire nel suo scopo fondamentale, producendo ignoranza, o meglio intelligenza cieca, anziché conoscenza. Come quel medico che, dimenticando che il corpo umano è un meccanismo complesso, cura il cuore e lascia ammalare gli altri organi fino alla morte del paziente. Così è accaduto che l’era degli economisti, dopo aver ridotto l’umanità alla mera dimensione mercantile nel nome dell’accrescimento della ricchezza, ha finito per diffondere miseria e infelicità».

*Luca Signorini, scrittore, musicista e compositore, è Primo violoncello del Teatro San Carlo di Napoli e docente al Conservatorio “Nicola Sala” di Benevento

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