“Il berretto a sonagli” cambia volto col Nest
Dopo il debutto in Sicilia a metà novembre e le successive tre date napoletane, si prepara a una lunga tournèe il lavoro diretto da Giuseppe Miale di Mauro che attraverso il testo di Pirandello recupera il passato e dialoga col presente conferendo nuova luce al personaggio metaforico di Beatrice.
di Ileana Bonadies
“Il Teatro non è archeologia. Il non rimettere le mani nelle opere antiche, per aggiornarle e renderle adatte a nuovo spettacolo, significa incuria, non già scrupolo degno di rispetto”.
Così affermava Pirandello nel 1936 in Storia del teatro italiano, a cura di Silvio d’Amico.
E così ha inteso assecondarlo Giuseppe Miale di Mauro nel lavorare ex novo al “Berretto a sonagli”, tra i più noti della sua produzione.
Scritto dall’autore girgentino nel 1916 per il capocomico Angelo Musco che lo adattò alla sua figura in maniera predominante effettuando tagli e rimaneggiamenti e mettendolo in scena l’anno successivo, il testo in origine era in dialetto siciliano e si intitolava “A birritta ccu ‘i ciancianeddi” , ma negli anni Venti venne italianizzato con l’effetto di far perdere alla storia la sua forza dirompente. Quella che solo una lingua dialettale sa esaltare dando voce alla spudorata naturalezza dei sentimenti, qualsiasi sfumatura essi abbiano, e al valore aggiunto dell’umorismo (da non confondere con il comico) che necessita – come spiegava lo stesso Pirandello – «del più vivace, libero, spontaneo e immediato movimento della lingua» che è «nella lingua viva e nella forma che si crea».
Poi nel 1936 l’affidamento, da parte dell’autore siciliano, a Eduardo, della traduzione in napoletano del testo, e l’ampio successo di critica e di pubblico tanto da far scrivere a Pirandello le seguenti parole di ringraziamento: «Ritorno adesso da Milano e trovo la lettera del vostro Argeri e i giornali coi resoconti del vostro trionfo. Non m’aspettavo meno da voi. Ciampa era un personaggio che attendeva da vent’anni il suo vero interprete».
E ora nel 2019? La scelta della Compagnia Nest di rapportarsi per la prima volta con il drammaturgo Premio Nobel e, in un percorso a ritroso di studio e recupero, attraverso l’adattamento e la traduzione di Francesco Niccolini, di proporre una nuova versione della commedia intervenendo su due aspetti fondamentali: la lingua, riportata al dialetto originale con incursioni napoletane che ne enfatizzano la musicalità e ne accentuano la vis drammatica; il conferimento di centralità ad un nuovo personaggio rispetto alle precedenti versioni: Beatrice. La moglie tradita che cercherà di denunciare il marito colto in flagrante pur contro il volere iprocritamente benpensante della famiglia e del vicinato che tenteranno di dissuaderla.
Se infatti pregna di maschilismo e condizionamenti bigotti risulta essere l’originale, diametralmente osservata dal punto di vista di una donna è la storia diretta da Miale di Mauro che per questo sceglie di far interpretare solo a Valentina Acca, mettendolo in luce, il ruolo femminile principale, e assegnando invece a uomini ‒ Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino e Mario Cangiano che non si sottraggono alla sfida, ma le conferiscono vincente credibilità ‒ tutte le altre parti, che così in un gioco perpetuo di scambi, assumono ora le sembianze dell’uno ora quelle di un altro personaggio – che si tratti della madre Assunta, o della bisbetica Saracena, o ancora di Ciampa, Fifi e Spanò –, mentre la regia con un attenta costruzione dei movimenti, li sospinge a un ritmo che asseconda quello degli eventi e dei conseguenti stati d’animo.
A far da complici alla messinscena così ideata, la scenografia di Luigi Ferrigno che ricrea una struttura a due piani che rimanda a un teatrino dei pupi, il disegno luci di grande efficacia di Paco Summonte ma, soprattutto, le musiche di Flo, in grado – come forse nessun altro in questo caso avrebbe potuto – di rendere tangibili atmosfere e sensazioni, facendo risuonare attraverso sé voci lontane, appartenenti a tradizioni differenti eppure legate insieme a vestire con enfasi gentile la vicenda di Beatrice, il suo malessere, la sua rivoluzione femminista prima di essere lei stessa costretta ad assecondare la giustificazione impostale della pazzia.
Quella pazzia che Giuseppe Miale di Mauro – nel segno di un lavoro condotto senza mai perdere di riferimento il tempo presente – riconduce, apportando una innovazione di gran peso che nel contesto però assume naturalezza perdendo ogni rischio di forzatura incoerente, ad Alda Merini. Una donna che ha saputo consegnare ai suoi versi tutta la libertà negatale e che qui diviene, insieme a Beatrice/Valentina che ci regala, nell’ultimo quadro in chiaro-scuro, il suo riconoscibile profilo, metafora di una rivincita cercata e inseguita contro ogni limite e impedimento.
Contro ogni alterazione del reale o immobilismo della società che ancora oggi richiede forza per essere scardinato.
E su cui il Teatro, partendo da lontano, è in grado di far riflettere anche oltre la scena, una volta spente le luci e terminati gli applausi (meritatissimi).