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In occasione del ritorno in scena al Teatro Nuovo di Napoli (fino a domenica 12 gennaio) del testo del drammaturgo flegreo, riproponiamo una critica di qualche anno fa sullo stesso lavoro, lasciandoci affascinare dal racconto della sua inscalfibile potenza scenica, su cui il tempo trascorso nulla ha potuto, se non enfatizzarne lo struggente vigore e valore.

di Antonella Rossetti

Fonte foto Ufficio stampa

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“Il teatro è una cerimonia laica, così come lo era per i Greci… Il teatro non è un concetto, né filosofia, il teatro è morte, sangue, sudore, odio, amore, invidia, possessione, cialtroneria, gioia… insomma è vita. È questo il teatro che Mimmo Borrelli continua a raccontare, scavando nel linguaggio delle tradizioni popolari della sua terra flegrea, che ben lo connota per umori e vigore. Il giovane drammaturgo, “scrittore furibondo, fluviale, forsennato nella sua loquacità da inferno”, premio Riccione 2005 per la sua opera prima ‘Nzularchia, raccoglie consensi anche all’estero. A Parigi, infatti, al Teatro Nationale La Colline, nel 2011, all’interno di una rassegna dedicata alla drammaturgia contemporanea più interessante del momento, si annovera con lode “Jaunisse”, ‘Nzularchia in francese, come un “testo contemporaneo che ha suscitato nel contempo entusiasmo e polemica”. È lo spazio di Officinateatro di San Leucio, il 24 e 25 marzo, ad ospitare Malacrescita, il nuovo lavoro di Mimmo Borrelli, tratto dalla sua tragedia ”La Madre: ‘i figlie so’ piezze e sfacimma”. La saracinesca-sipario di Officinateatro introduce, nella penombra, alle soffuse percezioni uditive che già preannunciano la particolarità della messinscena. Il rumore di sonaglini di orsetti in gomma e performativi ecolalici richiamano il mondo infantile. Un’infanzia dolente, testimonianza e denuncia di un passato che segna, viola nel corpo e nell’anima, in cui trova origine la malacrescita dei due interpreti: “Una pianta cresciuta in un fiume di melma cresce sempre male”. Ecco che Malacrescita ha inizio laddove la tragedia “La Madre” terminava. I protagonisti della pièce sono i due figli idioti che Maria Sibilla Ascione, la Medea di Cuma, non uccide, al contrario della barbara della Colchide, bensì, decide, per colpire il suo uomo violento e fedigrafo, Sandokanne-Giasone, di nutrire con del vino, “avvinazzandoli” e causando loro la sindrome feto-alcolica, che li deturpa per sempre nel fisico e nella mente. ”Li ha lasciati al mondo, abbandonati come dei rifiuti”. Sulla scena, in primo piano, numerose bottiglie di vino vuote, che delineando un parallelepipedo, incorniciano un sepolcro. Le bottiglie-portafiori, che segnano i confini di un luogo in decomposizione, mostrano, soprattutto, le nefandezze del comportamento della madre Maria. Al centro, la veste-placenta materna e una scatola-baule con ricordi femminili comuni, tra cui, le lunghe collane, simili a rosari con grossi grani. È intorno a questa tomba che i figli malformati e malcresciuti,di quella sposa-figlia di camorra, ritornano al passato “condannati a raccontare” quel dolore incarnato e dilaniante che li farà, irrimediabilmente, invecchiare senza poter crescere.

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Il bambinone-Borrelli si muove goffamente, con fare beota saltella e si rivolge al fratello Totò (Antonio della Ragione), che, seduto, suona strumenti semplici che rievocano memorie. Con maestria istrionica, Borrelli fa rivivere le debolezze e le profonde miserie della madre Maria Sibilla – “La madre non può essere libera, deve sacrificarsi per i figli; masochismo come destino” – e le pulsioni più violente di suo padre, il boss Schiavone: ”Non hai saputo fare la madre”. La sua drammaturgia, definita spesso un “mistero linguistico”, ritorna a declinarsi attraverso la musicalità e il ritmo di una parola “urlacciata, sverseggiata, vaiassata, ghiastemmata, sussurrata, surata, murmuleata, ghiagnuta, triatriata”. Una parola che s’impone con forza coniugandosi nei vari livelli dei versanti espressivi: gli aspetti fonologici e semantico-lessicali si intrecciano, rincorrendosi e scontrandosi, in un flusso verbale disfemico-tachilalico, in cui l’affanno dell’essere si palesa in ansia del dire. E l’autore che se ne fa tramite, tra versi, endecasillabi, terzine, rime alternate e baciate, riprende le intonazioni delle cantilene dei marrani con un timbro vocalico che ricorda, inevitabilmente, la sua Napucalisse. In questo genere di scrittura teatrale, la relazione tra contesto e narrato è costante: l’essenziale interpretativo si concretizza e prende forma nella marcata espressività che l’attore-regista raggiunge nei suoi climax. Qui, dispiega appieno le plurime sfumature emotive possibili che, secondo l’autore stesso, un attore può ottenere nel «mettersi in discussione, interrogandosi attraverso le parole, con le parole, plasmando e infondendo concretezza sonora ad un vivo tormento, che a sua volta rende la lingua, tormento stesso».

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L’articolata partitura inchioda gli astanti e ne catalizza l’attenzione per l’intera durata. Generando risonanze. Ed infine, Borrelli-fanciullo, con voce pacata, nel suo patologico baby-talk, ritorna ad interagire con il suo gemello Totò. Ricoprendosi con il rassicurante soprabito, sinonimo del contenimento materno negatogli, stringe al cuore l’orsetto di gomma rosa, oggetto transazionale e consolatore. Suscitando tenerezza “il piccolo” accende i ceri di rito e recita “le mamme non vanno lasciate sole”, quasi a voler giustificare la sua, del tutto inadeguata, ma della quale, tuttavia, ne sentirà sempre l’assenza lacerante. ”Non c’è carnefice che non sia stata vittima”.
La platea di Officinateatro, in piedi, applaude a lungo un professionista della scena, che con rigore e talento ha deciso, giovanissimo «di addentrarsi come un frate artigiano nel laico santuario del mestiere più inutile del mondo: l’attore».

 

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