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Scritto negli anni Ottanta e incentrato sull’emarginazione degli omosessuali, il testo di René Daniel Dubois è stato adattato da Giuseppe Bucci, che ne cura anche la regia, per superare tempi e luoghi circoscritti, e indagare sul desiderio sempiterno di amare e di essere amato.

di Rita Felerico

Fonte foto Ufficio stampa

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Lo sottolinea il commissario più volte nel corso dell’interrogatorio: avrebbe desiderato ritornare a casa da sua moglie o andare al supermercato per la spesa piuttosto che marcire lì, fra le parole di un soffocante contraddittorio, serrato, violento, estenuante, volutamente disumano. Si vuole strappare una verità, ma quale? quella “vera” o quella che ricerca a tutti i costi il tassello per chiudere “un caso” a prescindere dalla verità? Sarà il monologo finale di Yves, il giovane ragazzo “marchettaro”, l’assassino reo confesso, che si autodenuncia, che chiama persino l’amico giornalista a testimoniare della sua colpa, a darci sorprendentemente la motivazione e il senso dell’accaduto. “In casa di Claude” – diretto da Giuseppe Bucci e andato in scena alla Galleria Toledo di Napoli dal 20 al 22 febbraio -, Yves e il commissario si confrontano, resistendo nei ruoli che si sono imposti, nel duro dialogo innescatosi fra loro, del quale viviamo da spettatori solo la parte finale, densa – comunque – di tutta la violenza vissuta in precedenza. Yves non ha voluto subito confessare, si districa in forte contrapposizione morale e fisica; cede infatti solo alla fine del violento ed estenuante confronto, mettendo allo scoperto tutto il sé nel bel monologo (circa 20 minuti) di cui è protagonista, rivelando e insieme  spiegando, nel mentre  pronuncia le parole, il perché del suo gesto.
Regista attento al rispetto delle diversità, al diritto di ogni persona di essere libera nell’esprimere la propria identità, Bucci – napoletano – guida con la sua sensibilità i personaggi in scena: la fragilità del giovane accusato, la rigidità del commissario, “uomo” che ha saputo però conservare un briciolo di umanità nonostante il mestiere. Rispetto al testo originale del drammaturgo canadese Dubois, scompaiono dalla scena in questa versione due personaggi e non si precisa il tempo e il luogo; ma così la trama si scioglie e dispiega più facilmente, diviene sempre leggibile,  serrandosi man mano verso la fine. Una fine che parla di amore: quando si ama non importa chi siamo, siamo tutti uguali nel sentirlo e viverlo. La crudeltà, allora, richiama i rancori accumulati, la solitudine dell’essere ignorato, quel mettere da parte la diversità che non si riesce per pregiudizio e atavica educazione a comprendere e in qualche modo a gestire.
Lucida, senza sbavature l’interpretazione di Ettore Nigro (nel ruolo del commissario), che modula le tonalità della voce con perfezione, inseguendo e aderendo alla trama, all’atmosfera, alla tensione drammatica del contesto; molto bravo Mario Autore calato nei panni dell’inquieto e tormentato Yves che sorprende per resa e coinvolgimento. Aderente alla lettura registica le scene di Filippo Stasi, i costumi di Teresa Acone, le luci e le musiche di cui confessiamo ci era sconosciuto l’autore, Jo Coda.

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