Manlio Boutique

Masterizzato negli studi storici di Abbey Road, il nuovo lavoro discografico del gruppo fondato da Riccardo Prencipe enfatizza la parola coniugandola alla musica che si presta a dare voce a storie molteplici e diverse di cui porsi all’ascolto.

di Stefano Valanzuolo

Il disco

Il disco

“The moon is a dry bone” è il settimo disco prodotto in studio da Corde Oblique, gruppo che da sempre si muove, con personalità e buon gusto, sulla linea di confine che separa (apparentemente) folk e innovazione, producendo musica d’autore progressive degna di attenzione. Riccardo Prencipe, che di Corde Oblique è leader oltre che motore e anima, nelle note di copertina dell’album (registrato e missato a Napoli, masterizzato nei mitici studi di Abbey Road) parla di Folkgaze a proposito del linguaggio adoperato, con ciò alludendo ad un processo di mediazione/fusione che concili la vocazione “popolare” con l’anima più tecnologica e modernista del gruppo. L’osservazione diventa tanto più interessante e preziosa agli occhi (e alle orecchie) dell’ascoltatore in grado di guardare alle diverse correnti stilistiche tirate in ballo senza idee preconcette, guardando oltre le barriere ed etichette di comodo. L’elemento folk, elaborato in termini di riappropriazione consapevole delle radici (non solo) mediterranee, rappresenta in questo caso, infatti, il versante elitario dell’operazione, sottintendendo un lavoro di ricerca ampio e strutturato. Lo Shoegaze, cui Prencipe giustamente fa cenno nel dichiarare i propri riferimenti linguistici, diventa semmai la chiave espressiva, ossia l’alfabeto attraverso cui l’intensa riflessione sul concetto di “pop” viene resa in termini musicali. Ne risulta la percezione precisa che i due approcci siano, in questo album, complementari e non scindibili, oltre che svincolati da ogni rapporto di subordinazione o priorità per cui uno dei due debba apparire tradizionale e l’altro modernista, l’uno classico e l’altro contemporaneo.
Sono undici le tracce che compongono “The moon is a dry bone”: dieci brani originali (firmati tutti da Prencipe e arrangiati dalla band) più la cover di un pezzo (“Temporary peace”) degli Anathema. L’uso assiduo della melodia come elemento centrale nella quasi totalità dei lavori proposti si pone a denominatore comune tra le due anime del progetto Folkgaze. Una considerazione, questa, che porta a riflettere inevitabilmente sul valore conferito alla voce, nel disco in questione, ed alla parola. Proprio la parola è studiata, sfruttata, illuminata nella sua accezione semantica, significativa, non casualmente teatrale (pensiamo, per esempio, all’intervento di Maddalena Crippa nel brano “La casa del ponte”) ma anche solo timbrica, sonora, quasi liederistica; non nel senso di Schubert e Mahler, si capisce, ma di classico e popolare sì.
È un disco a tinte sfumate, per quanto sfrutti un’ampia gamma di colori strumentali posti virtuosamente a confronto. Il violino spesso spicca su una trama fitta e vellutata, ritmicamente sostenuta e avvolta dall’ebow in un’aura sognante e sintetica. Il ruolo della chitarra è trainante, le voci assecondano la linea di lettura, ora con profondità che rimandano vagamente a De André (è un complimento, si capisce) ora con brillantezza, come quella che Caterina Pontrandolfo, ne “Le grandi anime”, ricava da un fraseggio netto. Il disco – cui contribuiscono, come ospiti vocali, ancora Denitza Seraphim, Miro Sassolini, Andrea Chimenti e Sergio Panarella – assomiglia ad un percorso di meditazione, in cui il punto di partenza e quello di arrivo coincidono (di Ringkomposition avrebbero parlato i classici mitteleuropei) e trovano forma in “Almost blue”, brano attraversato da una vena di inquietudine misteriosa, lontanamente pinkfloydiana. Non stiamo facendo paragoni, evidentemente, ma forse provando a dare un’idea del ventaglio di suggestioni che possa suscitare, presso un pubblico onnivoro, l’ascolto di “The moon is a dry bone”.
Del resto, la fruizione stessa del disco non appare a senso unico: qualcuno, infatti, saprà trovarvi una pausa dagli affanni contingenti; qualcun altro, volendo, anche lo spunto per intuizioni più approfondite.  Ne “Le Torri di Maddaloni”, ad esempio, diventa possibile inseguire il filo che congiunga un racconto antico e rituale alla musica dei nostri giorni, sicuramente scandita da altre passioni e altri tempi, certo, ma nel rispetto di un comune impulso ritmico. Anche “Il figlio dei Vergini”, impreziosita dalla fisarmonica di Carmine Ioanna, lascia spazio ad appunti sulla forma canzone, non per forza italiana, non per forza moderna, non per forza assodata.
“The moon is a dry bone”, in fondo, è un’esperienza laboratoriale che esita in un racconto a più voci, privo di competitività e capace di ricavare spessore ed identità dalla volontà condivisa di far confluire storie diverse in un progetto comune. Al di là delle etichette, delle categorie di stile e di eventuali istruzioni per l’ascolto, francamente superflue in un caso del genere. Meglio mettersi seduti ad ascoltare.

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