Accoglienza e libertà spiegate in un racconto, quello di Rade Jarak
Le parole dello scrittore croato con la traduzione di Suzana Glavaš, diventano come un brano per pianoforte di Chopin e si fanno memoria di un innamoramento consumatosi un’estate quando cadde la neve.
di Luca Signorini
Suzana Glavaš, docente di lingua croata all’Università “L’Orientale”, è preziosa risorsa culturale, animatrice di un proficuo scambio tra intellettuali croati e italiani. La Glavaš promuove testi letterari e poetici attraverso traduzioni, convegni, pubblicazioni che investono, oltre alla ricerca ai rapporti letterari italo-croati da Dante ai giorni nostri, anche la sfera dell’ebraismo tra le due sponde dell’Adriatico, nonché alla poesia italiana del Novecento.
Suzana mi ha segnalato un racconto, Miracolo sull’isola, di Rade Jarak, scrittore croato residente a Zagabria dove insegna arte e dirige il Centro di Arti Figurative comunale.
Non a caso Suzana mi propone, per introdurmi allo scrittore croato, questo racconto da lei tradotto, data la ricchezza di contenuti e i valori che vi si presentano: il valore dell’accoglienza e il piacere del contaminarci con la diversità – nonostante Rade Jarak affermi che questa non è affatto una storia sulle differenze tra la gente, almeno non ha simili intenzioni –, di contaminarci con coloro che ci permettono di uscire dalla nostra piccola isola esistenziale, isola triste se non vi approdassero nuove genti, nuove culture.
Il valore della libertà, cosa importante e meravigliosa ma anche un peso. Chi è libero sente questo peso, addirittura se ne vergogna, afferma lo scrittore croato, quasi la libertà fosse una colpa, una tara; e forse lo è, in un mondo che obnublia le menti in un’omologazione mortifera. La libertà condanna spesso all’isolamento, chi non si uniforma è condannato alla pazzia. Vale la pena di ricordare Nietzsche, una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte: siamo tutti schiacciati dalle medesime catene, abbiamo tutti gli stessi desideri, ci trasciniamo allegri e inconsapevoli su questa terra soddisfacendo i piccoli capricci quotidiani concessi che agiscono come droga.
Vi è, nel racconto, l’emozione intensa per ciò che esprime la natura, emozione forte quando si è bambini, perché da bambini si è davvero capaci di apprezzare un fiocco di neve. Da bambini si vive nella meraviglia e la meraviglia è il fondamento della filosofia.
Vi è descritto quell’amore intenso che toglie la parola quando nasce in creature che si stanno appena affacciando nel mondo turbinoso e sorprendente dei sentimenti.
Miracolo sull’isola è un pezzo di bravura che esprime la sincera e intima commozione dei nostri ricordi. Abbiamo bisogno di raccontarli, i ricordi, affinché non muoiano; perché non vogliamo condannarci alla dimenticanza e al nulla. Potrei paragonare questo acconto ad uno dei brevi brani per pianoforte di Chopin, quei brani tanto più distanti da retorica e desiderio di stupire quanto vicini ai sentimenti sottili e indelebili; brevi e dolci attraversamenti del cuore partendo dai quali, poi, la vita costruirà le sue imprevedibili architetture.
Ancora due parole sul lavoro del traduttore che più che mai nella Glavaš è arte e ricerca certosina della giusta cadenza stilistica per preservare l’andamento del testo, che sia italiano o croato. Come dice Manlio Santanelli «il traduttore non deve limitarsi a volgere in un altro sistema di segni una parola dopo l’altra. Per rispettare le singole parole finirebbe con l’insultare lo spirito dell’opera alle sue cure affidata»
Ascoltai una volta alcune poesie della Glavaš (che ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti sia come poetessa che come traduttrice) della seconda sua silloge Ti suono le mie dita. Per mano sola: ebbene constatai come il croato sia lingua dalla musicalità intensa, affascinante. La Glavaš ama la musica ed è la musica che ci ha fatto incontrare in un moltiplicarsi di iniziative comuni delle quali vado fiero e alle quali aggiungo la presente recensione a questo suo ultimo lavoro di traduttrice. Complimenti quindi a lei e complimenti a Rade Jarak, sperando di vederlo presto a Napoli per parlarci dei suoi ricordi e della sua Croazia.
MIRACOLO SULL’ISOLA
di Rade Jarak
Giunsero in una giornata piovosa e la pioggia era il riparo naturale a proteggerli dagli sguardi. Giunsero poco dopo il Grande Male; era così che chiamavano la guerra mondiale terminata da poco. Avevano girato per il mondo, come in un tempo lontano dopo il Diluvio, e giunsero sulla nostra isola su cui da tempo non c’erano abitanti di un’altra confessione. Gli abitanti del luogo da secoli si recavano alla chiesetta sul colle ove si susseguivano solamente i sacerdoti, taciturni e scostanti, prevalentemente giunti dalla terraferma come per un segno di punizione. E poi avemmo gli Ebrei. L’avanzo di una tribù mitica che fece sbarco sul nostro povero Ararat. E nessuno li vide arrivare. Nessuno tranne me.
Gli arrivi sono sempre un po’ carichi di vergogna. Nascondono il pudore che si insinua negli abiti, nel respiro, nella pelle e nelle ossa degli arrivati – sebbene non colpevoli di niente – mentre negli sguardi degli indigeni si insinua il disprezzo o un senso di pietà. La pietà talvolta colpisce ugualmente i viandanti, almeno quelli con un briciolo d’orgoglio. Tuttavia, io penso che solo quelli che viaggiano sentano la libertà mentre quelli che vivono in un solo posto sembrano schiavi. Eppure, i viandanti si vergognano sempre della loro libertà come se facessero qualcosa di male. Non so perché, ma la gente ha sempre vergogna della propria libertà.
Solo io li vidi arrivare. Avevo nove anni e guardavo dalla finestra della soffitta in direzione della piazza e della riva. E in quella del mare al di là della riva. Per quelle vie giungevano notizie, nuova gente e nuovi eventi. Quel giorno nessuno sarebbe dovuto arrivare, ma io avevo un sentore. Io sono uno che fiuta quelle cose.
E il miracolo avvenne. Non troppo grande, ma un miracolo che mi cambiò la vita. Forse solo la mia, ma già questo è sufficiente.
Li trasportò il vecchio petroliere zio Marin, il cui motore singhiozzava e sputacchiava come un animale stanco. La barca aveva una cabina. Avvicinatasi alla riva, dalla cabina della barca uscirono tre persone: padre, madre e figlia; le femmine con le giacche a vento, l’uomo invece con un cappotto consunto e con un cappello zuppo fradicio di pioggia. Zio Marin allungò un bastone alla riva, poi con una mossa veloce attraccò la barca. Aiutò loro a scaricare la valigia. E quello fu tutto. Fece girare la barca verso la terraferma e se ne andò, lasciando loro in riva al mare.
La nostra isola è abbastanza vicina alla costa, un nuotatore piuttosto abile può attraversarne la distanza a nuoto. Tuttavia, la distanza tra l’isola e la costa è del tutto sufficiente perché l’umidità si insinui nelle ossa. Per un po’ di tempo stettero fermi sulla riva, come se cercassero di farsi venire un’idea, poi lui e lei si guardarono, si scambiarono due parole e sollevarono la valigia. Si incamminarono verso la casa del vecchio Ive. La ragazzina li seguiva.
Ive era un loro parente lontano; da lui avevano deciso di accamparsi. Furono accolti bene; Ive fece lavorare la donna nell’osteria al piano terra, mentre l’uomo… lui non faceva niente, passava giornate intere seduto e immerso nelle sue carte, nella sua inutile scienza, di cui io non mi interessavo granché mentre gli abitanti del paese lo ritenevano un po’ matto. Sembrava essersi portato con sé dalla terraferma un problema matematico irrisolvibile e ne era completamente preso. Forse aveva veramente perso il lume della ragione durante la guerra, tanto che sulle sue carte appuntava delle indecifrabili formule. Nell’insieme, però, anche loro divennero parte della popolazione della nostra isola.
Finalmente anche noi avemmo gli estranei. Avemmo quegli altri, gente diversa da poter guardare sott’occhio ed osservarne le strane usanze, altrettanto consapevoli di essere anche noi osservati da loro. Era come guardare in un enorme specchio che in ogni momento ci offriva risposte inattese. Anche la nostra isola divenne famosa per una cosa importante, tra le vicine isole dell’arcipelago. Noi avevamo gli Ebrei.
Questa però non è una storia sugli Ebrei. Questa non è affatto una storia sulle differenze tra la gente, almeno non ha simili intenzioni. Questa è una storia sulla loro figlia Sara.
Sara era una ragazza del tutto comune. Uguale a tutte le altre ragazze del nostro villaggio, e ce n’erano una decina. Non posso dire di essere stato sin dall’inizio innamorato di lei; sarebbe troppo. Forse avevo un leggero atteggiamento protettivo nei suoi confronti, perché ero stato il primo a vederla quel giorno scendere dalla barca sulla riva, e quindi mi illudevo di esserne responsabile. Eppure, durante tutta l’infanzia non avevamo scambiato quasi nemmeno una parola. Una volta avevamo giocato a campana all’ombra della piazza ed allora avevo scambiato qualche frase con Sara, cercando di spingere con un piede la mattonella, che, ricordo era un coccio di ceramica azzurra. Tuttavia non ho mai capito quel gioco il cui fine era di arrivare in cielo. Lo sapevano solo le ragazze.
Un giorno però, ed era appena finito l’anno scolastico, io avevo finito la seconda e lei la terza media, ebbi modo di trascorrere con lei un pomeriggio intero. Era d’inizio estate, un’atmosfera completamente diversa da quella del loro arrivo, il sole conferiva agli oggetti delle aureole luccicanti e il mare brillava e splendeva come una pietra preziosa. Il mio papà era andato in campagna, lasciandomi la barca per andare su un isolotto a dare un’occhiata al pascolo e al gregge recintato. Lì tenevamo alcune pecore che avevano bisogno di essere sorvegliate. Era una goduria andare in giro per l’arcipelago senza mio padre. Essere solo. Come un vero marinaio.
E al fatto che la felicità fosse ancor maggiore, quasi sconfinata, si aggiunse un’altra circostanza. Stavo appunto per spingermi al mare quando in riva apparve Sara e mi chiese di trasportarla su un isolotto ancor più lontano, dove suo zio Ive stava lavorando nella vigna. Ero felice, avevo la barca e il motore pieno di benzina, tutta la giornata davanti a me nel labirinto dell’arcipelago e in più anche Sara per tenermi compagnia. In un piccolo fagotto portava la merenda per lo zio.
Eppure, l’immensa felicità per il fatto che avrei trascorso con Sara un paio di meravigliose ore nel labirinto degli isolotti rocciosi, fu presto sostituita da un senso di pudore. Non sapevo quasi cosa dirle e intanto mi feci vedere indaffarato col motore, alle prese con il suo funzionamento, sicché dal suo eccessivo scoppiettare e singhiozzare non avemmo modo nemmeno di parlare.
La osservavo, aveva i capelli neri, la carnagione scura e due occhioni marroni e caldi. Aveva l’aspetto della ragazza di cui un giorno mi sarei innamorato, ma in quel momento… non ero in grado di pronunciare nemmeno una parola. La mia lingua si era fatta tutta un nodo. Pregavo la provvidenza divina a offrirci un’occasione.
Rise quando passammo accanto allo scoglio chiamato Chiappe della Nonna, e quando sorridendo da marinaio esperto le dissi quel nome. Parlammo timidamente della scuola e lei disse che probabilmente se ne sarebbe andata sul continente, non essendoci sull’isola le superiori. La cosa mi rattristò perché sapevo che giammai avrei potuto lasciare l’isola. Subito dopo approdammo nell’acqua bassa dell’insenatura dell’isolotto con le pecore.
La barca tagliò la limpidissima acqua azzurra. La attraccai ad un paletto. Sara invece rimase in ammirazione della natura selvaggia che ci era attorno. La nuda pietra di un attracco prendeva forma di un piccolo pascolo su cui belavano le pecore. C’erano alcuni agnellini. Sara si lisciò gaiamente l’indomabile chioma di riccioli e si avvicinò al recinto. Gli agnelli belavano. Si udì il frinire di un’instancabile cicala.
A quel punto accadde il miracolo. Il cielo azzurro tutto ad un tratto fu coperto da una nuvola nera, si alzò un vento forte; ci accovacciammo per il freddo. – Non preoccuparti, passerà presto – dissi. Sapevo che la nuvola sarebbe scomparsa velocemente, così come velocemente era comparsa. Ci riparammo sotto il tronco di un ulivo malaticcio, che era l’unico albero sull’isola, e attendemmo.
Una goccia cadde su una guancia di Sara e si sciolse in minuscoli cristallini che sembravano granelli di zucchero. Non ci potevo credere. Gettai un’occhiata alla chioma dell’albero e vidi centinaia di fiocchi leggermente svolazzare nell’aria. Incredibile! La neve a giugno! Alla soglia dell’estate.
Il vento all’improvviso si calmò, i rami dell’ulivo smisero di stridere e Sara uscì dal riparo dei rami. Il cielo si era incupito giusto un po’ a causa della nuvola, mentre dappertutto cadevano fiocchi, grossi, bianchi e consistenti come piume celesti. Si posavano sull’erba, sulle pietre, sui bioccoli di lana di pecora, scomparendo all’istante. Non potevamo riprenderci dalla meraviglia, li catturavamo con le mani e ridevamo. Il gioco diventava sempre più veloce. Sara infine si stancò e si appoggiò sulla mia spalla. Quello fu il nostro unico sfiorarci.
Neve! Neve!
La nuvola andò via presto, portando con sé la sua cupa ombra da sopra la quieta superficie del mare. Riprese a splendere il sole, i fiocchi si sciolsero, la barca attendeva attraccata al paletto. Tra le risate di Sara scendemmo a riva. Decidemmo di non dire a nessuno della neve poiché, se non era caduta sull’isola, di certo nessuno ci avrebbe creduto.
La portai sull’isolotto vicino dove suo zio zappava il terreno intorno ai viticci. Mi sorrise al congedo. Il sorriso delle sue labbra morbide era misterioso e promettente.
Quell’estate però se ne andò, proprio nel cuore dell’estate, ad agosto. Suo padre raccolse tutte i suoi incomprensibili conteggi, radici, differenze e potenze; sua madre invece le vecchie scarpe, il cappello consunto e abiti con fantasie floreali mentre lei si portò sulla costa la sua modesta valigia con pochi capi d’abbigliamento e un’unica stravecchia bambola. Non li rividi mai più. Ho persino dimenticato il loro cognome. Sono svaniti da qualche parte su questo enorme pezzo di terra che tuttora guardo con nostalgia dalla mia finestra e non oso recarmi oltre per cercarli.
Ma non ho dimenticato la neve. Non la dimenticherò mai. E non ne avevo mai raccontato a nessuno, solo a voi ora, per la prima volta…
(Traduzione dal croato di Suzana Glavaš)
Rade Jarak nasce a Dubrovnik, in Croazia, nel 1968. Dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti di Zagabria, trascorre un breve periodo in Giappone. È residente a Zagabria dove insegna arte e dirige il Centro di Arti Figurative del Comune di Zagabria. Pubblica poesie, saggi, racconti, diari e romanzi. Una delle voci maggiormente fuori dal coro della letteratura croata contemporanea, Jarak è soprattutto noto come romanziere, con sette romanzi ad oggi. Ha fondato e cura il sito web per la letteratura Knjigomat (Libromat). Con il racconto “Čudo na otoku” (Miracolo sull’isola) nel 2002 ha vinto il terzo premio al Concorso Internazionale per il racconto breve sul tema ebraico indetto dal Festival Bejahad dell’Unione delle Comunità Ebraiche Croate.