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Per il nuovo capitolo della rubrica “Microstorie” Marina Cuollo ci fa accomodare a tavola, preferibilmente accanto al forno, e tra una manciata di farina e un filo d’olio ci parla della pizza, incontrastata prelibatezza che a Napoli ha la sua casa.

Microstorie

Durante i mesi del lockdown, periodo in cui si spacciava lievito come fosse cocaina e le persone sperimentavano ogni sorta di miscuglio per ottenere il miglior lievito madre, buona parte degli italiani ha riscoperto l’antica arte della panificazione, popolando il web con fotografie di impasti di ogni tipo.
A tal proposito, oggi approfitto di questo spazio per dedicare una microstoria a lei, la regina degli impasti, simbolo spesso abusato e stereotipato di Napoli che però resta sempre un amore indiscusso: la pizza.
Noi napoletani siamo un popolo che ha sempre preso le cose con grande leggerezza, ma abbiamo quelle due-tre cose che consideriamo “robba seria” e guai chi ce le tocca. Una di queste è la Margherita.
Posso dirlo senza temere rappresaglie, per quanto ci siamo impegnati con intrugli di vario genere – e alcuni di noi se ne sono usciti con prodotti più che dignitosi – mangiare una pizza “professionista” è tutta un’altra storia. E infatti la prima cosa che ho fatto all’inizio della fase due è stato proprio ordinare Sua Maestà a domicilio. Vi assicuro che dopo la quarantena quella Margherita aveva il sapore del paradiso.
Ma sapete cosa? La pizza non è solo odore e sapore, la pizza è un rituale.
Prima della pandemia andavo spesso in pizzeria, ricordo che nei weekend, quando i locali erano sempre pieni, si faceva di tutto per evitare il tavolo vicino al forno. È il peggiore, dicevano, finisci in un angolo sperduto e sudi sette camicie. Eppure, finire vicino al forno io l’ho sempre considerato un privilegio. Le rare volte che mi è capitato ho avuto la possibilità di assistere a uno spettacolo gratuito in prima fila. Proprio così, rimango sempre incantata dai movimenti circolari con cui il pizzaiolo stende la pasta, il modo in cui distribuisce il sugo e sparpaglia la mozzarella, la velocità con cui versa a filo l’olio e la leggerezza con cui inserisce ed estrae la pala, sembra quasi una danza.
Mangiare poi quella pizza ancora fumante, che dal forno arriva direttamente sul tavolo, con un odore così intenso, la mozzarella che fila come fosse ragnatela, l’impasto morbido e il cornicione ancora gonfio, è un’esperienza a dir poco celestiale.
Si dice spesso che le idee vincenti siano quelle più semplici, e la pizza se ci pensate bene, incarna proprio questo concetto. In fondo si tratta di un po’ di farina, acqua e lievito, e un condimento altrettanto semplice, pomodoro, mozzarella, olio e basilico. Il risultato è un piatto che è durato nel tempo diventando patrimonio dell’umanità.
Bisogna ammettere però, che per quanto la pizza abbia girato il mondo, Napoli rimane la sua casa, e diciamolo, uno a casa sua dà sempre il meglio, si sente a suo agio, sta più comodo.
E infatti a Napoli la pizza trova la sua dimensione più classica, quel sapore che ci riporta alle nostre radici, a quella convivialità tipica di questa città.
Sarà questione di acqua? Sarà questione di aria?
Onestamente non lo so e neanche mi importa. Del resto io sono quella fortunata, per mangiare una pizza “professionista” mi basta alzare il telefono o allontanarmi un poco da casa. E appena questa obbligata distanza sociale diventerà soltanto un ricordo, non vedo l’ora di tornare a sedermi al tavolo più odiato per assistere di nuovo a quella danza tradizionale fatta di gesti antichi.

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