Manlio Boutique

Il numero 10 per eccellenza del calcio, la cui morte lo scorso 25 novembre ha addolorato tifosi e non tifosi, da Napoli a Buenos Aires, nel ricordo appassionato del regista e attore Peppe Miale.

di Peppe Miale

Ph Cesare Abbate

Ph Cesare Abbate

Il mio amore per Lui nasce in tempi non sospetti assolutamente precedenti alla sua venuta al Napoli, la squadra di cui sono innamorato dalla più tenera età. E nasce dalla mia passione totale e spesso totalizzante per uno sport meraviglioso, il calcio. Se è vero come è vero che la mia professione odierna di attore mi ha poi portato a calcare i palcoscenici, è altrettanto vero che il mio sogno di fanciullo mi portava a sperare di essere protagonista su palcoscenici altri. Quando, timidissimo bambino, mi rinchiudevo nella mia stanzetta ad immaginarmi protagonista eroico di vicende surreali che al mio cospetto i bambini protagonisti di Stranger Thing alle prese con il demogorgone sono dei dilettanti, il mondo di cui sognavo era un luogo popolato di tifosi festanti del Napoli per un mio gol alla Juventus. Con tanto di commossa corsa verso la curva che altro non era che la libreria piena di tomi di latino e greco che neanche quel pomeriggio avrebbero ricevuto soddisfazione. E devo ringraziare mia mamma per aver sempre declinato dal rimarcare alcunché, nemmeno quella volta che mi trovò inginocchiato davanti alla “curva” e poi riverso a terra per l’abbraccio commosso degli altri dieci immaginari compagni di squadra. Ma era giusto: avevo segnato per il mio Napoli all’ultimo secondo dell’ultimo minuto della partita decisiva per la vittoria del campionato!!! Era giusto!!! Cosi come era ingiustamente più reale il mio tre all’interrogazione di greco del giorno seguente.

Ho amato da sempre il calcio. Ho amato da sempre il Napoli. E proprio in quegli anni fatti di timidezze e di sogni, di ragazze irraggiungibili e di giornate infinite sui libri, ma soprattutto di partite ascoltate alla radiolina e di innumerevoli sconfitte degli azzurri, quando le primissime tv private della storia cominciavano a trasmettere partite dei campionati esteri, mi capitò di inciampare in una partita del campionato argentino scoprendo un funambolico giovane calciatore dal nome italiano che onomatopeicamente già riempiva la bocca di grandezza: DIEGO ARMANDO MARADONA. Me ne innamorai perdutamente. Non c’era Youtube, non c’era Internet, non c’era nulla di nulla che mi consentisse di ampliare la scoperta. Da una settimana all’altra (tale era la cadenza degli appuntamenti con la visione di scampoli del campionato argentino) vivevo nel ricordo di quei dribbling mai visti prima, di quella velocità di esecuzione pazzesca, di quei pallonetti da oltre trenta metri mai neanche immaginati. Non potevo neanche provare a ripetere le sue movenze nella stanza dei sogni. Non sarei stato credibile. Il mio riferimento calcistico dell’epoca, il primo campione di cui mi innamorai e di cui immaginavo di poter ripetere le gesta, era Rudy Krol. Difensore come me. Longilineo come me. Biondo come me. Elegante come me. Bello come me! No, quello no. Decisamente no. Ma magari, che ne so, crescendo sarei potuto migliorare. Intanto, nella disattesa attesa, sognavo di poter piacere alle ragazze come piaceva Rudy Krol. Nella stanza poteva succedere persino questo.

Ph Cesare Abbate

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Crescevo. Il calcio era centrale nella mia vita. Giocavo per strada con i miei amici di sempre, giocavo in una squadra giovanile dove pian piano prendevo consapevolezza che il talento a disposizione non mi avrebbe portato a rendere quella libreria una curva festante, e giorno dopo giorno mi innamoravo sempre più della mia squadra del cuore. Il fu stadio San Paolo diventava un appuntamento domenicale sempre meno casuale, cosi come sempre meno casuali erano i momenti di sconforto per una squadra come la mia che mai concretizzava l’obiettivo irraggiungibile, lo scudetto.

Il Napoli, società calcistica nata nel lontano 1926, non aveva mai vinto il massimo campionato italiano. Nelle serate adolescenziali, quando avevamo finito di giocare a pallone al campetto sotto casa di nonna Concetta e avevamo finito di giocare a Subbuteo a casa di Enzo, e avevamo finito di sperare che potesse passare Titti, la ragazza più bella del parco che però forse si chiamava Teresa e in ogni caso era bella da morire, uno di noi azzardava la domanda di sempre: “Quali sono i tre più grandi desideri della tua vita?”.  Io rispondevo una volta che avrei voluto prima o poi fare l’amore con una ragazza anche una qualunque, e due volte che avrei voluto che il Napoli vincesse lo scudetto. E credo che anche Igino, Giovannino ed Enzo rispondessero così (Enzo no, era juventino, ma ormai gli volevamo bene).  Ma neanche il mitico Rudy Krol riuscì nell’impresa. E si continuava a soffrire. E ad ammirare campioni lontani da noi.

Ph Cesare Abbate

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Intanto la mia ammirazione per quell’argentino riccioluto e imprendibile cresceva, e seguivo la sua nuova squadra, il grande Barcellona e la sua nazionale di appartenenza, la biancazzura Argentina. Nomen omen dicevano i latini. Nel nostro caso avrebbero scritto Color omen. L’azzurro nel destino. E lo guardavo, lo ammiravo, lo amavo.
ERA IL CALCIO. Altri calciatori sono stati meravigliosi. Ma nessuno come lui è nato per il calcio e solo per il calcio. Se Dio avesse immaginato di creare il prototipo di uomo che gioca a calcio, avrebbe creato il sinistro di Diego. E Diego lo avrebbe ripagato regalando a Dio il calcio che avrebbe immaginato di creare. Diego creava calcio cosi come altri creavano la Cappella Sistina, il David, la Gioconda, la Nona Sinfonia, Thriller…. Perché è quella la comunità di Diego. Il consesso che gli appartiene.
Quello di Michelangelo, di Leonardo, di Beethoven, di Michael Jackson. Quei geni per i quali la discrepanza tra ciò che sono e ciò che realizzano si fonde in una identità unica e non divisibile. In quei tempi intuii istintivamente la portentosità di Diego e quando, incredibilmente, nel Luglio del 1984 la stella cometa decise di illuminare il suo avvento nella grotta napoletana, camminavamo felici per strada io ed i miei amici Igino, Giovannino e Enzo (juventino, ma aveva a casa il tavolo di Subbuteo in truciolato, perfetto per giocare bene). Camminavamo felici perché almeno due dei nostri sogni si sarebbero sicuramente realizzati. Noi sapevamo che Diego ci avrebbe condotto allo scudetto. Lo sapevamo dal primo giorno, quando corremmo allo stadio, il fu stadio San Paolo, solo per vedere un uomo bellissimo vestito d’azzurro che palleggiò e disse “Buonasera napolitani”. Per assurdo, grazie a Diego, avremmo addirittura avuto speranza con le ragazze riguardo all’altro desiderio. Perché Diego ci ha insegnato che i sogni irraggiungibili possono essere raggiunti.

Il fanciullo della stanza dei sogni poi ha capito. Ha effettivamente fatto della libreria una curva. La curva del fu stadio San Paolo di Napoli. Quel fanciullo quel giorno sognato lo ha vissuto. Il 10 maggio del 1987, il giorno della vittoria per il Napoli del primo scudetto non era in campo come immaginava, ma sugli spalti. Ed è stato comunque il giorno più bello della sua vita.

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