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Finalista al Premio Annoni 2021, il testo di Antonio Mocciola debutta al Teatro Avamposto di Napoli (in anteprima per la stampa) diretto da Maria Verde, prendendo a pretesto la Sindrome di Stoccolma per affrontare gli abissi legati alle relazioni familiari e all’identità.

di Ileana Bonadies

Fonte foto Ufficio stampa

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Stoccolma.
Come la sindrome che lega la vittima al carnefice; come la città in cui Gianluca sarebbe voluto andare a fare l’Erasmus se fosse riuscito a conseguire l’ultimo esame a Giurisprudenza; come il testo scritto da Antonio Mocciola, finalista lo scorso anno al premio internazionale Carlo Annoni dedicato “a tutti coloro che in Italia e nel mondo lottano per aver riconosciuto il diritto di amare e contro le discriminazioni dovute all’orientamento sessuale”.
Ma “Stoccolma” è anche molto altro.
È indagine sul rapporto padre-figlio; sull’affermazione di identità di ogni essere umano; sulla subordinazione che esiste tra simboliche figure-guida come può esserlo un genitore o un professore e chi occupa una posizione di inferiorità legata al ruolo che riveste in quel frangente della vita, che si tratti di un figlio, per l’appunto, o di uno studente. Sulle gabbie a cui le convenzioni sociali, familiari, costringono limitando la libertà della persona e costringendola, in molti casi, ad auto limitazioni o, ancora peggio, repressioni della propria vera natura.

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Tutto ha inizio da una bocciatura, l’ennesima, immotivatamente subita, e da una minaccia rivolta a chi ne è la causa: so dove abiti.
Immediatamente il quadro iniziale, in apparenza espressione di banale normalità, cambia, si ribalta, e da un contesto rassicurante ci ritroviamo all’interno di un luogo asfittico, tetro, in cui la luce filtra appena, con un uomo nudo imbavagliato e incatenato e un ragazzo, fuori di senno, che lo tiene prigioniero umiliandolo.
Sono il docente colpevole del non superamento dell’esame e il suo studente. La vittima e il carnefice.
Hanno il volto e il corpo, rispettivamente, di Antonio De Rosa e Michele Capone (al suo debutto assoluto), ma sulla scena sono semplicemente il “professore” e il “signor Landi”, così come il ragazzo pretende di essere appellato rifiutando un più confidenziale “Gianluca”.
Ed entrambi sono alla ricerca di se stessi.
L’uno, del padre mancato che è stato per suo figlio a cui non ha saputo manifestare affetto ma solo senso del dovere.
L’altro, del proprio io nascosto troppo a lungo, in famiglia soprattutto. Dinanzi a un padre che forse ha capito ma che nulla mai ha fatto per aiutarlo a rompere quella bolla di silenzio, imbarazzo, inadeguatezza che avrebbe richiesto empatica, accoglienza, ascolto.
A tenerli insieme oltre il legame distruttivo, che è il più immediatamente percepibile e ingombrante sul palcoscenico, la figura – forse fittizia, forse reale seppur invisibile – di Marcello, figlio del professore e amante di Gianluca. Causa e pretesto per entrambi di interrogarsi, scavare nel loro intimo, darsi quelle risposte per troppo tempo rimandate, farsi nuove domande.
In cerca della salvezza, che poi è liberazione dalle grate di una esistenza parallela, dalle incomprensioni, dai pregiudizi.

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Maria Verde ne cura la regia (assistita da Katia Girasole) ed efficace si rivela il ritmo che conferisce alla messinscena (il cui allestimento si avvale della collaborazione di Bruno Garofalo) che negli attori palesa, con credibile dose di verità, l’irrequietezza dei loro stati d’animo e il continuo ribaltamento di ruoli tra i due.
Chi sia l’oppressore e chi l’oppresso, man mano che la storia avanza e le musiche originali di Antonio Gillo ne sottolineano i nodi cruciali, diventa sempre più difficile capirlo nel voluto gioco di disorientamento, e l’elemento della nudità, presente sin da subito, presto assume un valore anche simbolico: spogliarsi dell’apparenza e del costruito, necessari per conformarsi a un cliché non disturbante, e mostrarsi nel pieno delle proprie fragilità.
Quelle stesse inizialmente respinte e negate ma che inevitabilmente, in un parossismo di tensione, si palesano in tutta la loro vulnerabilità.
Implorando una pietas che lascia allo spettatore la scelta di giudicarla una resa oppure una conquista.

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