“Hospes, -ĭtis”: catarsi o turbamento?
Il testo di Fabio Pisano diretto da Davide Iodice ha inaugurato la stagione del Teatro San Ferdinando di Napoli portando in scena, in prima assoluta, storie di fine vita in cui far riflettere – comer fosse uno specchio – chi osserva e ascolta.
di Ileana Bonadies
L’avviso tacito, per immagini, arriva perentorio appena le luci si abbassano e non lascia scampo: lo spettacolo che sta per iniziare parla di voi; di voi seduti in platea e ora riflessi qui, sulle pareti di plexiglass di questo nosocomio.
Buio. Iniziamo.
Prende avvio così Hospes, – itis di Fabio Pisano, per la regia di Davide Iodice, andato in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli dal 12 al 17 ottobre.
Prende avvio da una sospensione tra luce e silenzio; tra brusio e messinscena, e immediatamente catapulta gli spettatori, in mascherina ma non più distanziati, nel claustrofobico cubo trasparente in cui tutto si svolgerà.
Il disegno luci riconsegna senza sconti una atmosfera gelida, asettica, in cui il bianco domina assoluto tra colori sbiaditi, teste canute, lampi di nero e di rosso. Sul palco pochi elementi, che entrano ed escono spostati dagli stessi personaggi all’occorrenza. Invadente, sovrastante su tutto, finanche sulle parole a tratti, il suono: metallico, da eco, che traduce la drammaturgia in vibrazioni dall’alterna intensità, spingendo gradualmente chi osserva e ascolta in una bolla rarefatta che ipnotizza ma al contempo induce alla fuga.
Due sensazioni contrapposte eppure inscindibili.
Perché, se da un lato, nella struttura che ospita malati terminali ci si entra spinti, mentre sembra di sentire lo sbattere della porta alle proprie spalle, dall’altro è una irrefrenabile voglia di scappare quella che dopo poco coglie lo spettatore. Intanto però, tra il restare e l’andare via ecco prendere vita – lì dove in realtà è la fine soltanto ciò che si attende provando a preservare la dignità – le storie di chi quel luogo senza una collocazione esatta lo abita.
Sono medici, infermieri, pazienti. È il factotum, il cuoco, il Direttore, la Morte.
Sono tutti ospiti del medesimo spazio, ciascuno ricopre un ruolo differente e recita la propria parte, ma attenzione “non siamo in un gioco o in un pezzo di teatro. No. Questa è la vita. Ed è davvero difficile abituarvisi”.
Il tempo è dilatato, sospeso (come il letto del paziente in coma che campeggia in alto nella scenografia) nell’attesa del passaggio ultimo, quello che nel frattempo un anonimo 31 dicembre segna come passaggio a un nuovo anno. Se sia giorno, pomeriggio o sera non lo si intuisce, luce naturale non esiste, solo i neon rischiarano gli ambienti e la vita da fuori non entra se non attraverso i ricordi dei malati, legati al tempo della vita fuori, e al telefono sulla scrivania del Direttore che squilla facendo intuire dall’altro capo la voce di qualcuno che aggiorna, informa, desta preoccupazione.
Eppure, mentre il tasto dell’esistenza per Minamata, Schindler, Purpura, Lemierre, Cloves, Parjinson (i cui nomi propri sono quelli della malattia che li affligge) è ineluttabilmente fermo su “pause”, le lancette dell’esistenza corrono in avanti e si attende la mezzanotte, da accogliere come sempre, con un cenone degno dell’occasione. Insieme, possibilmente felici.
Ecco dunque delinearsi due piani narrativi-esistenziali, riflesso di ciò che è stato e di ciò che è: quello descritto dalle parole dette, sognate, vissute quando ancora la malattia non era predominante e il futuro aveva orizzonti infiniti, e quello invece della memoria, rivolta al passato, fatta di “non mi ricordo”, vacillante, che prova solo a rallentare l’avvicinarsi dell’irreparabile, mentre intorno si fanno spazio flebili innamoramenti e ultimi desideri finora irrealizzati provano ad essere esauditi. Al centro, come un ago pronto a far pendere il piatto, la Morte, ora regista che indica le azioni da compiere, ora voce narrante munita di consolle e microfono, ora personaggio al pari degli altri che interagisce e condiziona pur se visibile solo agli occhi di uno soltanto di loro. E al tempo di un ritmato “sospira” ferma e riavvia gesti, discorsi, intenzioni.
Del resto è lei, nella finzione come nella realtà, che muove i fili; che decide, che abbraccia per l’ultima volta. E nell’allestimento immaginato da Iodice (a cui i movimenti studiati da Chiara Alborino aggiungono appigli visibili a suggestioni astratte) dominante è il suo “ingombro” che non a caso è onnipresente, e tale resta anche quando – usciti da teatro – continuiamo ad avere nelle orecchie quella richiesta d’aria associata a un movimento sempre uguale. E inevitabile è l’associazione, non senza oppressione, a quanto vissuto durante l’acme della pandemia quando faticare a respirare non era affatto una simulazione.
Perché bisogna ammetterlo lucidamente: se questo testo – vincitore del Premio Hysrtrio – scritture di scena 2019 – avesse debuttato quando è stato scritto, dunque prima della pandemia, forse differente sarebbe stato il segno che avrebbe lasciato. E riferibile a una situazione meramente “immaginaria” o comunque ad appannaggio di pochi sarebbe stata la sua collocazione; ma con gli occhi dell’esperienza vissuta, totalmente differente si fa ora lo sguardo, e il giudizio e comprensibilmente difficile si dimostra anche l’accettazione di quanto rappresentato.
Un lavoro corale, esteticamente d’impatto, in cui le scelte di regia a volte rischiano di sovrastare la drammaturgia e il suo lirismo, ma a cui assicura linfa il cast (formato da Angelica Bifano, Carolina Cametti, Antimo Casertano, Orlando Cinque, Daniel Dwerryhouse, Noemi Francesca, Damiano Rossi, Giulia Salvarani, Ilaria Scarano, Sebastiano Sicurezza, Aida Talliente, Emilio Vacca, Francesco Vitale), omogeneo nel tenere su gli sviluppi degli accadimenti, con punte di efficacia che connotano positivamente l’insieme. Ma che nulla può contro il rischio di insofferenza dolente che in alcuni – i cui commenti sono udibili a messinscena in atto se li si ha come vicini di posto – si determina, e che come in poche altre occasioni consente di vedere vivificato quel dialogo aperto e fluido tra teatro, pubblico e contesto la cui qualificazione sarà unicamente legata al percepito di ciascuno. E come tale degno di accoglienza al di là dell’accezione che avrà.