“La vacca”, o della bestialità della condizione umana
Per la prima volta in scena al Nuovo Teatro Sanità lo scorso 14 ottobre, lo spettacolo – coprodotto da B.E.A.T teatro e ntS’ – della giovane autrice Elvira Buonocore per la regia di Gennaro Maresca, vincitore del Premio Cappelletti 2019 “per i contenuti universali e attuali di forte valenza sociale e politica”.
di Ileana Bonadies
È l’innocenza spenta da brutale possesso.
Il sogno che si frantuma contro la realtà.
La miseria, quella dei valori oltre che materiale, che si consuma in una anonima periferia resa vivibile solo dall’immaginazione, dal desiderio di regalarsi un futuro diverso, dal presente che ci si racconta con altre parole per non vederne la dolorosa inconsistenza.
“La vacca” di Elvira Buonocore, diretto da Gennaro Maresca e vincitore, tra gli altri, del Premio Dante Cappelletti 2019, è nella sua potenza tragica tutto ciò, ma non solo.
È la storia di due fratelli senza una famiglia, diversi per indole eppure inseparabili. Il legame che li unisce potrebbe sfociare nell’incesto se ci fosse malizia nello sguardo con cui li si osserva. Li conosciamo per ciò che vorrebbero essere, avere, diventare e solo gradualmente, mentre la storia si dipana, scopriamo cosa davvero fanno per sopravvivere e perché rifuggono la bruttezza inseguendo pensieri di evasione.
Si chiamano Mimmo e Donata e hanno il volto, il corpo, la potenza espressiva di Vincenzo Antonucci e Anna De Stefano, talenti cresciuti nel vivaio del Nuovo Teatro Sanità, e ora giunti a una maturità attoriale vivida, segno del lavoro fatto in questi anni, della dedizione con cui lo hanno affrontato, dei buoni maestri avuti, delle innate qualità che attendevano solo di essere forgiate.
Il microcosmo in cui si muovono è come una bolla che li tiene lontani da tutto il resto, li isola facendogli percepire in modo distorto ciò che li circonda. Poi d’improvviso qualcosa accade, un terzo elemento, incomodo, si intromette tra i due ed ecco che le percezioni iniziano a cambiare; che l’immagine che hanno di sé inizia ad apparire differente, che i bisogni – finora ingenui, innocui – diventano altri e in particolare Donata inizia a inseguire una idea di se stessa diversa, caratterizzata da nuove forme, più seducente e meno infantile.
Ma chi è Elia, il mandriano innamorato del suo bestiame? Chi è quell’uomo che cerca disperatamente di recuperare le mucche che gli hanno sottratto e a cui era affezionato come fossero vere e proprie persone da proteggere, accudire e chiamare per nome?
Un personaggio chiave, che solo in apparenza presumiamo di comprendere nella sua immediatezza di uomo semplice, buono, che non farebbe male a nessuno, e a cui Gennaro Maresca regala con maestria una identità credibile (e ingannevole) mentre la drammaturgia gli affida battute e scorci di ilarità che il pubblico accoglie col sorriso.
Della sua evoluzione, però, preferiamo non indugiare preferendo lasciare ai futuri spettatori la scoperta di quello che accadrà: un disvelamento progressivo, dirompente, efficacemente costruito, in fase di scrittura prima e registicamente poi, affinché nulla risulti banale o scontato, del buio che si annida nei personaggi; delle fragilità di cui sono espressione, del bisogno di amore che in silenzio reclamano ma che non sono in grado di riconoscere né mettere in pratica non avendone mai fatto esperienza.
E che centra la sua forza nel saper preservare leggerezza e tragicità, tenerezza e dolore e l’equilibrio perfetto con cui l’insieme viene sapientemente cucito, messo in scena e interpretato, coadiuvato dal disegno luci di Alessandro Messina, dalla scenografia di Michele Lubrano Lavadera, i costumi di Rachele Nuzzo, l’aiuto regia di Roberta De Pasquale.
In un crescendo che esplode restando infine muto.
Come un cuore che sbatte contro il male. Come un inganno che avviluppa senza lasciare via di scampo. Come un lieto fine che in alcune storie è negato per sempre.