La musica classica esiste: ma a chi interessa?
Comunicazione e divulgazione alla base della riscoperta dell’arte musicale per eccellenza oggi più che mai avvertita come lontana e inaccessibile.
di Luca Signorini | violoncello solista del Teatro San Carlo
I principali media nazionali non hanno mostrato alcun interesse per i prestigiosi concorsi internazionali di esecuzione musicale (classica) vinti da musicisti italiani. La cosa è stata rimarcata sui social, ma merita un approfondimento.
Il pensiero va ad epoche lontane, nelle quali i dibattiti sulla musica classica impegnavano figure straordinarie del mondo letterario. Pensiamo a Charles Baudelaire e alle sue lettere di stima inviate a Richard Wagner, oltre ai suoi articoli elogiativi sulla musica dell’allora poco conosciuto, a Parigi, compositore tedesco. Da quegli articoli, che sono brevi saggi di eccezionale intensità, si evince come una nuova musica potesse suscitare scontri tra estimatori e non, e si ha l’idea di quanto l’arte dei suoni fosse importante. Ma pensiamo anche a Gabriele D’Annunzio, pure impegnato in un elogio tanto dell’arte wagneriana quanto nella critica verso colui che, una volta, dell’autore del Parsifal era amico e poi non più: Friedrich Nietzsche. Il vate, simbolo del decadentismo, confuta puntigliosamente le feroci accuse mosse a Wagner da parte del filosofo tedesco, del quale peraltro era attento lettore.
Oggi tutto questo sembra un universo lontano, irrecuperabile. Imperano altri eventi popolari e planetari. Il mondo della musica classica è confinato in un recinto angusto, elitario, incomprensibile alle masse. Tornano alla mente le provocazioni di Alessandro Baricco, quando asserì che gli Enti Lirico Sinfonici, oggi Fondazioni, hanno sostanzialmente fallito nel loro ruolo divulgatore.
Ricordo anche il pensiero di un filosofo napoletano, uomo autorevole e attento alle vicende del nostro presente: la frequentazione di un Teatro d’Opera era per lui esclusa a priori; contesto anacronistico, assembramento autoreferenziale che ha perduto la sua ragion d’essere, il teatro lirico è, diceva, luogo polveroso simile a un museo abbandonato o a piazza d’incontro per facoltosi pensionati. La musica c’è, ma chi se ne accorge più?
Non ho fatto studi statistici sull’incidenza delle fondazioni lirico sinfoniche nella cultura musicale della nazione, né tantomeno di quanto la presenza di licei musicali e degli stessi conservatori di musica abbiano sviluppato nella popolazione un sentimento positivo nei confronti del patrimonio musicale colto occidentale. So però che nessun telegiornale ha dato nell’immediato (ma solo con giorni di ritardo) la notizia che un italiano, il violinista Giuseppe Gibboni, ha vinto il prestigioso Premio Paganini di Genova, o che i due italiani Leonora Armellini e Alexander Gadijev sono finalisti al concorso Chopin di Varsavia.
La musica classica non interessa ai media o non interessa a nessuno? O non interessano le conquiste giovanili? (non è un paese per giovani, il nostro; lo si dice spesso e, appunto, vox populi vox Dei). Probabilmente un po’ di questo e un po’ di quello, per non essere troppo tranchant. Ma una cosa andrebbe fatta: operare una approfondita autocritica da parte dei cosiddetti operatori del settore.
I musicisti classici sono distribuiti in tre o quattro diversissime realtà: una è la scuola, spesso salvagente sociale più che missione educativa. Un’altra sono le fondazioni lirico sinfoniche, che vedono impegnato un gruppo relativamente ristretto di persone. Una terza agglomera i freelance, persone laureate brillantemente che saltellano da un posto all’altro vivendo una perenne condizione precaria, senza grandi prospettive di miglioramento economico. La quarta, infine, riunisce tutti coloro che, una volta conseguito un titolo, hanno messo la musica in soffitta e si occupano d’altro, viste le magre opportunità. Ve ne sarebbe una quinta, che è quella dei celebrati solisti e direttori d’orchestra, ma è talmente ristretta da essere utilizzata perlopiù come bandiera da sventolare ogni volta che si desidera osannare il nostro paese. Totem, icone da venerare: è il gruppo degli Dei dell’Olimpo che guardano dall’alto le miserie umane.
Attorno a determinate realtà anche sane, poi, si muove un abile stuolo di faccendieri impegnati a recuperare risorse pubbliche per far quadrare il proprio bilancio domestico e, se ne avanza, elargire briciole ai malcapitati giovani entusiasti (prossimi a fare di quell’entusiasmo un falò) desiderosi di dare un senso alla propria laurea e alla propria vita.
Ora, in una situazione come quella che ho descritto, come si può pensare che – a meno che non si levi alta la voce di un Riccardo Muti, o di un Uto Ughi – i giornali e i telegiornali mostrino interesse, almeno per lo spazio di una mezza serata, verso la musica classica? Certo, di notte e qualche volta in prima serata un canale televisivo trasmette un’opera lirica. E su Rai Radio Tre (in quanti la ascoltano?) vi sono trasmissioni dedicate. Ma questa è divulgazione? Possibile che si debba ritornare alle parole di Alessandro Baricco, quando diceva che gli unici due veicoli di trasmissione del sapere che potrebbero, in quanto capillari, davvero raggiungere ed educare tutti – purché lo si faccia nel modo giusto, aggiungo io: non se ne può più di ascoltare personaggi pomposi e favellanti in un untuoso birignao dissertare di agiografie, con commenti musical-tecnici che lasciano un punto interrogativo in testa a chiunque voglia genuinamente capirci qualcosa – sono la televisione e la scuola, ed è lì che vanno allocate le maggiori risorse anziché finanziare le ipertrofiche (la scala di Milano pare abbia mille dipendenti) fondazioni? Acquistare quindi spazi televisivi dai quali operare un’autentica divulgazione del sapere (vi ricordate la trasmissione “Non è mai troppo tardi”? ecco qualcosa del genere) e permettere alla scuola di dotarsi di laboratori di formazione alla musica classica.
Comunque, con o senza Baricco, il problema va affrontato.
Qualche nota storica non guasta, se non altro per rimarcare la pedestre disattenzione di tutti nei confronti della divulgazione. Le orchestre Rai chiusero proprio nel momento in cui i conservatori di musica, da dieci che erano, si moltiplicarono e andarono a regime. Tanti strumentisti, pronti per la carriera, trovarono le porte del lavoro chiuse. Per contro, gran parte dei conservatori furono luoghi di transito per docenti in attesa di trasferimento: i malcapitati allievi si ritrovarono con un insegnante diverso ogni anno, quando si sa che per studiare uno strumento un minimo di continuità didattica è essenziale. Le graduatorie nazionali, dal canto loro, non valutano nel modo che sarebbe congruo le attività artistiche, al punto che una laurea in ingegneria vale più dell’aver occupato il posto di primo violino in un’orchestra di prestigio. Mettiamoci anche il fatto che suonare o non suonare uno strumento è un optional nell’attuale ordinamento del conservatorio: il docente può averlo appeso al muro da anni e tuttavia continuare a far lezione.
Detto ciò, chi critica è opportuno faccia anche proposte costruttive. Non è facile, ma qualcosa dirò. Il pubblico, specialmente quello giovanile, ama assistere alle prove, che sono un ottimo modo per far capire chi siamo e come lavoriamo. Penso che l’aura di mistero dalla quale è circondato il nostro lavoro debba scomparire; è necessario mostrare cosa facciamo non sul palco in frac, ma ogni giorno in jeans: non basta più prodursi in melodie brahmsiane, è importante far capire come si giunga a quel risultato, passo dopo passo.
Attualmente le scienze che studiano i meccanismi della divulgazione sono molto avanzate, basti pensare alle serissime tecniche comunicative pubblicitarie: si può approfittare di queste discipline, investire attingendo a esse.
Come anche investire nella sacrosanta diffusione del dilettantismo: incentivare l’insegnamento della musica rivolgendosi a tutte le fasce sociali, di tutte le età, senza che gli studi siano finalizzati al conseguimento di un titolo.
E soprattutto è necessario comprendere che cambiano i tempi ma non cambia il teatro musicale di Wagner: siamo quindi noi, in questo difficile presente, a doverci industriare affinché la comprensione di quella musica sia possibile a tanti, a preoccuparci che di quelle partiture si apprezzi ciò che vi è di letterario, mitologico, storico, filosofico; e anche rendere limpido a tutti il percorso necessario all’allestimento di un Tannhäuser, mostrandolo. La nostra realtà di tutti i giorni è assai diversa da quella della Parigi di Baudelaire, la sfida è resuscitare la medesima passione di ieri in un mondo che, ad oggi, considera la musica classica un’entità lontana e inaccessibile.