Silvio Orlando e “La vita davanti a sé” [ROMA]
Al Teatro Argentina di Roma, l’attore conduce il pubblico nel realismo magico dell’omonimo romanzo, accompagnato dalle suggestive musiche dell’Orchestra Terra Madre.
di Elvira Sessa
Tratto dal romanzo dello scrittore francese Romain Gary, ambientato in una Parigi di fine anni Sessanta del secolo scorso, e diretto e interpretato da Silvio Orlando – in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 6 gennaio – il monologo “La vita davanti a sé” vede protagonista Momò: bimbo arabo cresciuto da Madame Rosa, anziana ex prostituta ebrea reduce da Auschwitz che si prende cura dei figli naturali delle colleghe più giovani e riscuote un vaglia mensile per mantenerlo.
Orlando rompe la finzione scenica prima ancora che inizi lo spettacolo quando fa sentire solo la sua voce ringraziando i numerosi spettatori per la loro presenza nonostante i tempi di pandemia e augurando loro un “in bocca al lupo” per l’avventura che si apprestano a compiere. Poi li coinvolge progressivamente nel mondo del piccolo Momò.
Tutto sulla scena – fondale, oggetti, luci, suoni- partecipa della realtà interiore del protagonista ed è trasfigurato dallo sguardo e dal sentire di Momò magistralmente interpretato da Orlando, in una perfetta simbiosi tra regia e attore e tra attore e personaggio. Così, la torre di scatoloni al centro del palcoscenico diventa ora il palazzone dove abita Momò, ora una tenda da circo, ora la torre Eiffel. Le luci ora si fanno bluastre assecondando le illusioni del bimbo, ora si spengono e riaccendono all’improvviso come al risveglio da un incubo, ora, nelle scene più intime e realistiche, si sfumano lasciando una fiammella di candela come nella discesa nella cantina del palazzo che rappresenta il cantuccio ebreo di Madame Rosa.
Le musiche – dell’ Orchestra Terra Madre, dirette da Simone Campa, con Maurizio Pala alla fisarmonica, Simone Campa alle percussioni e chitarra battente, Gianni Denitto al clarinetto e al sax – avvolgenti e nostalgiche nella voce melodiosa di Kaw Sissoko al kora, scoppiettanti nelle sonorità yiddish e klezmer, irruente nei ritmi tribali del djembe, conducono il pubblico nelle fantasie e i sogni di Momò e nel suo tessuto multiculturale; dal canto suo Orlando, proprio attraverso la percezione di Momò, fa rivivere ogni personaggio – Madame Rosa, la bella Nadine, il dottor Kats, il papà omicida – interpretandolo con posture, movenze, dizione e tonalità di voce a volte caricaturali altre volte estremamente naturali e familiari. Tutti appaiono giganteschi. Le voci si fanno cupe e stanche come quella di Madame Rosa, goffa e appesantita dai suoi 95 chili, distaccate e sbrigative come quelle del dottor Kats, accoglienti come quella di Nadine da cui Momò vorrebbe essere adottato. La tensione emotiva, smorzata da battute ironiche che a più riprese fanno sorridere il pubblico, cresce a mano a mano che ci si addentra nella disperata fame di affetto di Momò e culmina con l’incontro che gli cambierà per sempre la vita (e che qui preferiamo non svelare).
Emoziona e commuove la scena finale, chiave di volta dell’opera, in cui l’attore incarna con intensità Madame Rosa che sul letto di morte rivolge a Momò parole di tenerezza e di orientamento per la vita che ha davanti a sé e, al tempo stesso, interpreta Momò che, ormai consapevole di non essere stato solo un vaglia, la stringe a sé, facendo emergere il forte amore materno tra i due, scandito da tre parole fulminanti e urgenti in ogni tempo: “Bisogna voler bene”.