“La Metamorfosi” di Kafka nello sguardo di Barberio Corsetti
Fragilità, inquietudini, alienazione sociale al centro dell’atto unico che, partendo dal testo dello scrittore boemo, guarda alla realtà attuale non senza farsi voce e segno della pandemia attraversata. In scena al Teatro Argentina di Roma fino al 27 febbraio, raggiungerà poi il Teatro di Napoli dal 2 al 13 marzo.
di Elvira Sessa
Le luci del sipario sono ancora spente quando in platea si avverte un cadenzare lento di passi: gli attori attraversano il pubblico diretti verso il palcoscenico, illuminati da una fioca luce bluastra. Intonano un canto sommesso. Lo stesso che chiuderà la rappresentazione della triste vicenda di Gregor Samsa.
La vicenda ha inizio nella stanza di Gregor – un coinvolgente Michelangelo Dalisi – rannicchiato nel letto e dal colorito più pallido delle lenzuola. Il suo volto è contratto in una smorfia di orrore e incredulità. La sveglia è suonata da un pezzo e non l’ha sentita. Ma, quel che è peggio, è che non riesce ad alzarsi. Con movimenti minimi e scattosi, alternando una voce narrante, ferma e accorata, con un’altra stridula a tratti incomprensibile, l’attore ci introduce nella drammatica scoperta del protagonista: si è tramutato in un enorme insetto ributtante. Il dolore più grande però non è questo nuovo aspetto ma il fatto di essere rifiutato dai suoi stessi familiari, di cui ascolta e comprende ogni commento su di lui ma con cui non riesce a comunicare. L’incomunicabilità tra lui e gli altri e, più in generale, tra ogni personaggio, è enfatizzata dalla scelta del regista Giorgio Barberio Corsetti – già confrontatosi in precedenza con l’universo kafkiano – di far recitare tutti in terza persona, riprendendo fedelmente il testo originale (nella traduzione di Ervino Pocar). Non solo. Anche la scenografia di Massimo Troncanetti rende tangibile la netta separazione tra un Gregor non più lavoratore, non più produttivo, e gli altri, specie il padre (Roberto Rustioni) e la madre (Sara Putignano, a cui succederà Gea Martire nelle repliche al Teatro di Napoli) e la sorella Rita (Anna Chiara Colombo), che si facevano mantenere da lui e che ora non possono più “utilizzarlo” perché divenuto letteralmente un parassita.
La scena, infatti, è divisa a metà da un muro che separa la stanza di Gregor dalla sala da pranzo dei familiari. Su una facciata – la parete scrostata e inumidita della stanza del protagonista – si delinea la parola “immondo”, sull’altra – quella della sala da pranzo – campeggia la parola “mondo”. Parole che stigmatizzano l’intimo e la vita dei personaggi. L’“immondo” è Gregor, segregato nella camera divenuta progressivamente il ricettacolo dei rifiuti domestici e mortificato nel bozzolo di sudiciume che sente ormai parte della sua identità, come magistralmente mostra Dalisi, con una andatura sempre più lenta e storpia, e una postura sempre più accartocciata e grottesca fino a strascicarsi a terra e a rintanarsi sotto al canapé. Il padre, la madre e la sorella sono invece il “mondo”. Provano a comportarsi come se Gregor non esistesse più, preoccupati di nascondere all’esterno la metamorfosi del giovane per cui provano solo ribrezzo e vergogna. La tensione raggiunge l’apice quando il padre, in un impeto di collera e disgusto, conficca una mela nel corpo del figlio, contribuendo alla sua morte. Dalisi terrà questa mela attaccata sulla schiena per più di mezz’ora, facendo sentire al pubblico, al tempo stesso, la condizione animalesca in cui si è ridotto e la sofferenza di un figlio-fratello condannato ad una solitudine che lo lascerà agonizzare nella sua camera/tana di insetto.
Pur se attraversata da logorio mentale, spietatezza e progressiva perdita di identità, non mancano però nella messinscena momenti di ironia, come nei duetti tra Gregor e la temeraria cameriera (una energica Francesca Astrei) e nelle mormorazioni dei tre pensionanti di casa Samsa, interpretati da Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri. A stemperare la freddezza dei rapporti familiari la musica di Massimo Sigillò Massara: le sonate di Rita al violino, che richiamano calde sonorità ebraiche, e i cori che si elevano negli snodi cruciali della narrazione fungono da ultimi appigli di umanità. L’effetto complessivo che si determina sullo spettatore è di straniamento e partecipazione: si è contemporaneamente dentro e fuori il dramma. Da esso si rifugge e in esso si riconosce. Accade nelle tragedie greche e sta accadendo oggi, nella realtà di ognuno di noi e di chi ci è intorno, come del resto evidenzia lo stesso Barberio Corsetti: “Il lento logoramento che fa scivolare Gregor nel disagio, nella depressione” è “una condizione psicologica che somiglia molto a quella che abbiamo subìto a causa della pandemia”. Un’opera catartica.