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L’arte, la genialità e il buio esistenziale dello scultore napoletano rivivono nello spettacolo scritto e diretto da Antimo Casertano con l’intento di ricercare la materia intima che muove un artista, la sua complessità, la sua follia.

di Alessandra Longo

Foto Nina Borrelli

Foto Nina Borrelli

“Io non so centomila lire quante siano né m’importa saperlo. Io non conosco il denaro, ma gli eroi: a me basta una pipa di tabacco e della creta. Il resto è zero”.
Vincenzo Gemito, lo scultore pazzo dell’800 napoletano è tornato a vivere sul palco del Piccolo Bellini, dal 26 aprile al 1 maggio, grazie allo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Antimo Casertano, sul palco insieme a Daniela Ioia, Luigi Credendino, Ciro Kurush Giordano Zangaro.
Abbandonato appena nato alla ruota degli esposti nella Chiesa dell’Annunziata, come spiegato dallo stesso Casertano, Gemito ha vissuto “una vita tormentata dalla continua ricerca della perfezione e dal maniacale tentativo di lavorare non per la conquista del successo ma per la verità” che l’ha portato alla reclusione in manicomio dal quale è fuggito nel 1888 per rifugiarsi in una clausura casalinga durata più di vent’anni.
I bronzi dello scultore accolgono il pubblico nel foyer del teatro di via Conte di Ruvo, segnando il punto di partenza di un viaggio artistico che aiuta a comprenderne il passato e la psicologia, e culmina con l’ingresso in una sala nebbiosa, anticipazione della discesa nei meandri di una mente tanto geniale quanto inospitale.
La nebbia, dunque, quale metafora per trasportare lo spettatore in quella che sarà la graduale discesa in un luogo oscuro, popolato da demoni e mostri. O statue che all’occorrenza possono animarsi, come il bronzo della statua di Carlo V che fa compagnia agli spettatori e interrompe il racconto nel momento in cui la goccia (o il dito, in questo caso) fece traboccare il vaso del disagio interiore del Gemito. Un dito, come può un dito che punta verso il basso distruggere così un uomo?

Ma andiamo per gradi.

Foto Nina Borrelli

Foto Nina Borrelli

Una scenografia tetra, nella quale svetta solo e imponente un blocco di marmo, catapulta i presenti nella mente di Gemito. Un artista abbandonato, rinchiuso, al cui fianco due figure, un uomo e una donna, danno voce al disequilibrio psichico che lo attraversa. Nell’ombra si nasconde la statua di Carlo V, impersonata da Ciro Kurush Giordano Zangaro, perseguitandolo come un fantasma e puntando il dito, questa volta, contro il suo creatore.
“Vincenzo va nell’orto a raccoglier l’insalata. Il bimbo sta malato. La mamma non lo sa, la mamma non lo sa. E dopo qualche giorno, scoppia la malattia. Viene portato via, rinchiuso all’ospedal. Rinchiuso all’ospedal.”
Una canzoncina da bambini, intonata senza sosta dalla eccezionale Daniela Ioia, contribuisce ad aumentare il senso di angoscia generato dall’incipit di quest’opera.
Vincenzo, interpretato dallo stesso Casertano, corre e si dimena sotto una pioggia battente, in fuga tanto dal manicomio, tanto quanto da sé e dai suoi fantasmi. Fino a crollare fra le braccia della sua amata Nannina, l’unica in grado di placare le sue voci interiori. Ma non capace di salvarsi dal baratro in cui viene inevitabilmente trascinata.
Il dramma dell’artista, infatti, diventa dramma dell’uomo, che porta con sé nell’abisso anche gli affetti più cari, trasformando sia Nannina sia l’amico Salvatore Postiglione, interpretato da Luigi Credendino, in figure dicotomiche amate ed odiate allo stesso tempo.

Foto Nina Borrelli

Foto Nina Borrelli

Inizia così il coinvolgente percorso nel dedalo della mente, con un’indagine accurata e commovente che trasforma e sfata “il mito del genio-folle”, portando in scena la lotta costante di Vincenzo schiacciato da se stesso, dalle sue allucinazioni, dalla sua arte e dallo stesso marmo che era solito ubbidire ai suoi comandi lasciandosi plasmare dalle sue mani.
Ne risultano 80 minuti di poetica analisi psicologica, durante i quali il proscenio si trasforma nella porta d’ingresso per il precipizio. Le voci interiori bisbigliano, urlano, cantano, annebbiano la razionalità, con un ritmo incalzante che arriva a coprire il suono stesso delle parole dell’uomo e dei pensieri degli spettatori. I demoni della mente di Gemito prendono corpo fino a divenire gli stessi che popolano la mente di ogni singola anima presente in sala.
“Attraverso la vicenda di Gemito cercheremo di esplorare la materia intima che muove un artista, sperando di porre le domande giuste. Sperando di poter aprire le giuste fessure nei meandri delle nostre anime” era stato l’avvertimento del regista, sin dalle sue note di presentazione, del resto. Ma a poco è servito l’ammonimento per preparare a sufficienza lo spettatore all’intensa ricerca interiore nella quale verrà poi trasportato dal momento in cui si spegneranno le luci.
E un dramma che non lascia speranza sarà quello che si consumerà, mentre un profondo senso di spaesamento e di voglia di lottare per se stessi e la propria anima, quello che resterà addosso. Perché in fondo, come avverte la statua in marmo, “Un uomo ha bisogno di un mostro in cui credere per definire la propria identità. Altrimenti siamo solo noi, contro noi stessi”.

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