Baudelaire, “un’individualità dalla traboccante umanità”
Nel giorno dell’anniversario della morte del poeta e scrittore francese, il ricordo di un dettaglio dalla forma di nuvole – quelle dipinte da Eugene Boudin -, per raccontarne la poetica.
di Luca Signorini
Il 31 agosto del 1867 muore a Parigi Charles Pierre Baudelaire, all’età di quarantasei anni. Una morte tutt’altro che serena, seppure confortata dall’abbraccio della madre, presente fino all’ultimo istante di vita del poeta. Tra gli infiniti spunti che una figura così imponente offre, ve n’è uno piccolo, trascurabile, che però mi ha colpito, ossia la noia che il Salon, l’esposizione periodica parigina di opere di pittori contemporanei, gli produce. Baudelaire deve recensire il Salon ma non trova spunti, nulla che lo infiammi, «nessuna esplosione». Tranne però le nuvole di Eugene Boudin; in quei quadri è il cielo, non la terra, protagonista della visione. Come l’hashish, pur nocivo, produce effetti che fanno librare corpo e anima verso dimensioni sorprendenti, così quelle tele di nuvole interpretate da Boudin – quelle nuvole, non altre: «nubi dalle forme fantastiche e luminose, tenebre caotiche, orizzonti in lutto e grondanti di metallo fuso» – offrono allo sguardo la possibilità di un altrove, all’anima una via di fuga, alla poesia una nuova possibile vicenda. Purché questo sogno avvenga in solitudine, purché sia ben chiaro che l’istinto poetico, lo slanciarsi oltre il percepibile, e quindi nell’oltre vita, avvenga lontano dagli altri; avvenga senza la minima pretesa di farne, di quell’intuizione, una scuola, un’occasione per imitare: «Non conosco niente di più compromettente degli imitatori e nulla mi piace di più che essere solo. Ma non è possibile; e a quanto pare la scuola Baudelaire esiste». (Che poi la solitudine intesa come il non voler fare scuola, è uno straordinario principio pedagogico, è il fine dell’insegnamento: rendere autonomo l’allievo, ponendosi, il maestro, come autorevole compagno di viaggio).
Le nuvole cambiano continuamente forma, sono corpi impalpabili che però formano oggetti allo sguardo assai definiti e maestosi; la loro mutevolezza non permette alla mente di riposare su di una definizione conclusa. Le nuvole tracciano una trama ma non hanno un finale, contraddicono il loro stesso disegno nei modi più vari; si trasformano da elemento decorativo, tenue e gradevole, a cataclismi irrefrenabili, e la pioggia che ne discende è dolce e innocua quanto violenta e selvaggia. Così come, nella poesia di Baudelaire, nel contrasto «tra ciò che è inciso nello splendore e ciò che è “esteticamente non pregevole”, “faticoso”, “grossolano”, “duro”, “gracchiante”, “selvaggio”, “irregolare” e “illogico”» spiega con la sua altissima preparazione e passione di studioso Giuseppe Montesano «consiste la grandezza dei Fiori del male».
Baudelaire fu ferocemente attaccato dalla critica più autorevole e preparata del tempo, così come anche Lev Tolstoj ne condannò la poetica con accanimento: «È troppo tempo che si ammira Baudelaire». Oggi, leggendolo nelle sue prose come nelle sue poesie, abbiamo la coscienza di un’individualità dalla traboccante umanità, laddove per umanità si intenda il cogliere e rappresentarla tutta, l’umanità, dalle nuvole alle prostitute, da Wagner agli assassini, dai vampiri ai morti per la rivoluzione del 1948. Morì tra le braccia di una madre che non abbandonò il proprio straordinario figlio nell’ora suprema.