Eppur si muore!
Andata in scena a Sala Ichos dal 21 al 23 ottobre, “Occhi delinquenti – l’autopsia da vivo di Giovanni Passannante” è la storia dimenticata del giovane lucano che attentò alla vita di re Umberto I, oggi riportata alla luce da Antonio Mocciola ed Edgardo Bellini.
di Domenico Ascione
Una storia dimenticata, insabbiata, rimossa dalla Storia con la “s” maiuscola. Quella che, si sa, sono sempre i vincitori a scrivere e riscrivere a piacimento proprio. Siamo in via Principe di San Nicandro a San Giovanni a Teduccio, Sala Ichos. Teatro per i tre giorni appena trascorsi (dal 21 al 23 ottobre) di “Occhi delinquenti – l’autopsia da vivo di Giovanni Passannante”, scritto da Antonio Mocciola e di Edgardo Bellini, per la regia di Gennaro D’Alterio. È la periferia di Napoli, «dove periferia s’intende in senso buono», ci ricorda quest’ultimo poco prima che si spengano le luci e il proscenio passi ai suoi protagonisti. Tocca ad Emanuele Di Simone, Giuseppe Brandi e Francesco Petrillo ripescare dall’oblio Giovanni Passannante e la sua emarginata vicenda; siamo nel 1878 e Giovanni, giovane lucano di simpatie repubblicane, è a Napoli per compiere un gesto clamoroso: attentare alla vita di Umberto I, Re d’Italia, con un coltellino da dodici centimetri barattato per la sua giacca. La punizione è tanto sproporzionata quanto clamorosa. In seguito ad un processo durante il quale l’avvocato difensore sembrò essere piuttosto un «secondo accusatore», autore di una «difesa sconclusionata e infelice», Passannante viene condannato a morte, pena commutata poi dallo stesso Re Umberto in “ergastolo” («Ho deciso di far grazia a Passannante: egli era un povero illuso»). Dalla morte, allora, si passa all’Inferno in Terra vero e proprio: Passannante sconterà la sua pena a Portoferraio, sull’isola d’Elba. In una cella striminzita, umida, buia, senza servizi igienici, più che nutrito mantenuto in vita. Una condizione disumana che lo condurrà alla pazzia, cui il famigerato Cesare Lombroso tentò poi di affibbiare il nome di predisposizione genetica, in ossequio alle teorie della cosiddetta “antropologia criminale” tanto in voga all’epoca. Per aggiungere scherno al danno, il nome della città natale dell’ “anarchico” è beffardamente convertito da Salvia di Lucania a Savoia, e ancora da quelle parti la faccenda è vexata quaestio (esistono a tutt’oggi due comitati, come ormai in pratica un po’ per tutto: uno che vorrebbe riappropriarsi del toponimo originario in memoria delle torture subite da Passannante; l’altro che condanna il gesto compiuto dal proprio concittadino rivendicando l’onore di portare un nome tanto aristocratico e altisonante).
Tornando sul palco, la messinscena è mozzafiato: nel silenzio assoluto di una sala intima e commossa, i tre giovani attori campani ridanno voce, come soltanto il teatro sa fare, a un dramma silenziato. L’allestimento è essenziale: a riempire lo spazio scenico solo una sedia, una catena e la pianta di limoni che per lungo tempo fu l’unica compagna di cella di Passannante, interpretato magistralmente da Petrillo a cui spetta il gravoso compito di metterne a nudo (letteralmente) travagli interiori, sogni di gloria liquefatti e ideali libertari miseramente infranti. Il ritmo è incalzante, la musica avvolgente, la recitazione pressoché impeccabile. La triste vicenda di Giovanni turbò talmente tanto lo spirito dei contemporanei che persino il suo omonimo Pascoli ebbe a dedicargli un componimento dal titolo: “Ode a Passannante”; successivamente, galileianamente “abiurò”, distruggendolo. Il contenuto dei versi conclusivi è però giunto sino a noi: «Colla berretta d’un cuoco, faremo una bandiera.» Perché per quanto si possa provare a mettere i bastoni fra le ruote a una storia, un giorno, da qualche parte nella periferia del mondo, ci sarà sempre un pazzo shakespeariano, un sognatore, un artista che avrà il coraggio di ri-raccontarla e di restituirle fiato.