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Andato in scena a Sala Ichos, a San Giovanni a Teduccio, sabato 12 e domenica 13 novembre, lo spettacolo, per la regia e drammaturgia di Antonio “Tony” Baladam, approfondisce il rapporto parola-corpo in un originalissimo lavoro in bilico tra performance, happening e teatro.

di Domenico Ascione

Fonte foto Ufficio stampa

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Che si sarebbe trattato di “qualcosa fuori dal Comune” (in tutti i sensi, visto che siamo nella piena periferia di Napoli) lo si era capito scambiando già due parole prima della “prima” con Antonio Baladam, romagnolo doc di Modigliana: look scapigliato da bohémien del ventunesimo secolo, occhio vispo, baffetto alla Dalí ed eloquio spigliato. E in effetti “Washing Out” è un caleidoscopio di immagini, sensazioni, barlumi di sogno partoriti da una fantasia vivida e costantemente in marcia. Il tutto prende le mosse dalla prima, potentissima scena della “lavanda dei piedi” («immagine fortemente connotata, che verrà risignificata e distorta come simbolo di questo lavare via» – leggiamo nelle note di regia), per poi dipanarsi in una variopinta, fantasmagorica sequela di eventi in cui i protagonisti giocano a inseguirsi, a desiderarsi, a respingersi; a ritmo di musica, a passo di danza. La trovata più geniale è senza dubbio rappresentata dalle scritte che di volta in volta compaiono in sovraimpressione, e che influenzano, anzi piuttosto dirigono l’incedere degli avvenimenti, così come sono talvolta questi ultimi a plasmare le scritte stesse, in un continuo, turbolento, talvolta persino incomprensibile fil rouge che attraversa l’intera narrazione.

Fonte foto Ufficio stampa

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E questo fil rouge è il Novecento, ci spiega l’“autore ipse” al termine dello spettacolo: le sue contraddizioni, i suoi (dis)valori, le sue violenze, i suoi modelli stereotipati, i suoi rapporti di forza, le sue laceranti ambiguità esistenziali. Tanta roba, forse onestamente troppa. E già, perché “Washing Out” risulta alla fine un lavoro “concettuale”, e come tutta l’arte concettuale che si rispetti abbisogna di una chiave interpretativa che troppo spesso manca all’interno di un’opera parecchio ambiziosa ma forse ancora acerba. Anche perché, per stessa ammissione/scelta tecnica del loro “allenatore”, Erica Meucci, Giuseppe Claudio Insalaco e Maria Susca (peraltro ballerini eccellenti), per dirla alla Aldo, Giovanni e Giacomo, «non sono attori professionisti; son presi dalla strada»; e invece, si sa, per rappresentare l’Assurdo, la perfezione attoriale è praticamente un obbligo.
Ad ogni modo “Washing Out” è un’idea brillante, una ventata d’aria fresca in un teatro (financo quello “Off”) troppo spesso zeppo di cliché e nient’affatto coraggioso. È una riflessione sull’equivocità del linguaggio, sul suo potere creativo e distruttivo a un tempo. Una scombiccherata, politicamente scorretta allegoria di un’epoca incerta, di una specie incerta. E in cerca. In cerca di una ragione, di uno scopo, di un senso profondo. Per poter essere ancora degni, ancora vivi; per non essere lavati via dal Mondo.

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