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Al Teatro Argentina di Roma, dove è in scena fino al 18 dicembre 2022, il romanzo di John Steinbeck rivive ed emoziona attraverso il rito collettivo del teatro.

di Elvira Sessa

Massimo Popolizio

Massimo Popolizio

Il ticchettio della macchina da scrivere apre il sipario del Teatro Argentina di Roma, introducendo il pubblico gradualmente nelle vicende dei protagonisti di Furore, Premio Pulitzer nel 1940. Dietro una scrivania, Massimo Popolizio batte vorticosamente sui tasti, cataste di giornali alle spalle, mentre sullo sfondo, sul grande schermo di 16 metri, si legge: “Nell’estate del 1936, il San Francisco News chiese a John Steinbeck di indagare sulle condizioni di vita dei braccianti sospinti in California dalle regioni centrali degli Stati Uniti, soprattutto dall’Oklahoma e dall’Arkansas, a causa delle terribili tempeste di sabbia e dalla conseguente siccità che avevano reso sterili quelle terre coltivate a cotone. Il risultato di quell’indagine fu una serie di articoli da cui l’autore americano generò, tre anni dopo, nel 1939, il romanzo Furore. Quello cui assisterete è il racconto di come John Steinbeck trasformò quella decisiva esperienza giornalistica, umana e politica in grande letteratura.
La penna realistica e immaginativa di Steinbeck prende il corpo e la voce di Popolizio, ideatore e regista della pièce, adattamento di Emanuele Trevi, musiche dal vivo di Giovanni Lo Cascio, produzione Compagnia Umberto Orsini/Teatro di Roma-Teatro Nazionale, assistente alla regia Giacomo Bisordi.
Immagini, musica e parole si fanno tutt’uno nella narrazione che ripercorre le parti salienti del romanzo attraversando in successione alcune tematiche: polvere, trattori, odio, accampamenti e latte. Le potenti immagini fotografiche proiettate sul fondo della scena, tratte dai reportage dell’epoca di Dorothea Lange e Walker Evans, si intrecciano con le sonorità, dal rap al blues, dell’eccezionale polistrumentista Lo Cascio e con l’efficace adattamento di Trevi. Il pubblico, così, ora viene trasportato, sulle note dell’armonica a bocca, nelle distese sconfinate della strada 66, la Main Street d’America che collega l’Est all’Ovest, “calvario del popolo in fuga”, ora, al ritmo delle percussioni, rimbalza anch’esso sui veicoli sgangherati che formicolano sull’asfalto rovente. Mentre scorrono sullo schermo le foto di donne e bambini vestiti di stracci polverosi, si trova anch’esso negli accampamenti dei profughi radunati la notte intorno al fuoco, e sembra sentire qualcuno suonare la chitarra e qualcun altro cantare, mentre la voce di Popolizio racconta: “Ogni sera si creava un mondo, si fondavano amicizie, sorgevano ostilità; un mondo fatto di animosi e vigliacchi, umili e superbi; e ogni mattina quel modo veniva smontato, come un circo”.
Grazie all’espressività della voce e all’ausilio di una piccola telecamera che riprende il suo volto e lo proietta sul grande schermo, l’attore riesce a trasmettere tutta la compassione che Steinbeck provava per i protagonisti del suo romanzo: donne, uomini e animali. Si avverte la fatica della tartaruga che con sforzi immani e incredibile lentezza si trascina con il suo guscio sotto un sole a picco, gli occhi ironici e feroci che guardano fisso innanzi, decisa a scalare un muraglione di calcestruzzo, inerme dinanzi al camincino che sterza apposta per schiacciarla, senza riuscirci. Come pure, si sente la sofferenza del contadino che racconta di quando, nella campagna contro gli indiani, rimpiange di aver ucciso un innocente: “Stava lì immobile, braccia spalancate, nessuno aveva il coraggio di sparargli, finalmente io miro alla pancia e…ohibò il gigante s’abbatte in avanti (…). Non avete mai visto un fagiano reale, superbo della sua bellezza e bum! sparate e andate a raccoglierlo e lo trovate tutto guasto e sanguinolento; e sentite il rimorso di aver distrutto un essere vivente che era meglio di voi?”
La rabbia e l’umiliazione degli emigranti, spogliati delle loro fattorie dalle banche e alla vana ricerca di una vita migliore, serpeggiano in tutta la messinscena: “Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia” ripete Popolizio con toni appassionati, che ricordano il titolo originario del romanzo “The Grapes of Wrath” (“Gli acini del furore”).
La calorosa partecipazione degli spettatori conferma l’intuizione di Trevi: “Forse non c’è un attore, nel panorama teatrale italiano, più in grado di Massimo Popolizio di prestare a questo potentissimo, indimenticabile «story-teller» un corpo e una voce adeguati alla grandezza letteraria del modello”.

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