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In scena al Piccolo Bellini fino al 15 gennaio, lo spettacolo di Fabio Pisano è un arido dialogo fra sordi che attraverso l’uso di metafore affronta il tema dell’accoglienza, del respingimento e dell'”altro”.

di Domenico Ascione

«Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose!
E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!
»
(Luigi Pirandello)

Fonte foto Ufficio stampa

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Questa è forse una delle citazioni più note, e forse usate e abusate, di “Sei personaggi in cerca d’autore”, eppure sembra azzeccatissima per l’ultimo lavoro teatrale scritto da Fabio Pisano: “La macchia”. La trama è semplicissima: un giovane bussa alla porta dei vicini che abitano al piano di sopra per tentare di indagare l’origine di una chiazza apparsa da poco sul soffitto “grigio tortora” della propria abitazione. Ad “accoglierlo” (si fa per dire) all’uscio è la padrona di casa: una donna imprigionata in un matrimonio infelice con un marito – impiegato alla frontiera – che sembra anteporre “la tappa in salita” della gara di ciclismo che sta seguendo in tv a qualsiasi altra cosa, come una sorta di dottor Lessing de La Vita è bella, nell’empia illusione che la soluzione all’indovinello dell’anatroccolo possa lavar via tutto l’orrore dello sterminio che lo circonda. E in salita è sin da subito la conversazione tra i protagonisti, infarcita di luoghi comuni, convenevoli, malintesi, incomprensioni, incomunicabili sensazioni.
Tra reminiscenze sbiadite, pinteriani, beckettiani echi di paradossali, supposti avvenimenti, riusciamo a scoprire che la coppia è convinta che il tizio lavori per il servizio di nettezza urbana a domicilio, che sia lì soltanto per ritirare una vecchia asse da stiro consunta e portarla via. In realtà il ragazzo, forse straniero, vuol “semplicemente” rivendicare un suo diritto, accertarsi che la macchia di umido che lo tormenta non provenga dal bagno dei suoi bizzarri anfitrioni. Invano. Già, perché di lì in poi è tutto un susseguirsi di equivoci, accuse, giochi al massacro di reziana memoria, per cui la banale faccenda della macchia/asse è soltanto la miccia che fa esplodere il fuoco di un’esistenza coniugale annoiata, che cova ormai da tempo immemore sotto la cenere di una quotidianità sgualcita. Ed è così che il deserto amoroso di una relazione assai più logora della famigerata asse da stiro si ringalluzzisce un’ultima volta allorché i due partner (in crime), quasi in un’esplosione orgasmica, allagano casa propria, allargando la macchia, mentre il povero malcapitato se la fa addosso, e sconfitto, umiliato, inascoltato, si autoinfligge la patente di netturbino caricandosi a spalla, come un Cristo dei giorni nostri in croce, l’elettrodomestico da smaltire.

“La macchia” è una pièce potente, evocativa, scritta con arguta intelligenza e profondo umorismo, sebbene possa risultare in qualche punto ridondante, ripetitiva. Francesca Borriero ed Emanuele Valenti sono assolutamente all’altezza, anche se francamente tutta l’architettura recitativa è sorretta da uno strepitoso Michelangelo Dalisi, che il sottoscritto aveva già avuto modo di ammirare nei panni di un gigantesco Gregor Samsa ne “La Metamofosi” di F. Kafka, in scena qualche tempo fa al Mercadante di Napoli. Un testo completo e complesso, una riflessione lucida e senza sconti su un tempo, il nostro, in cui la Compassione, la Comprensione, l’Ascolto sono le più infrequenti tra le arti. Anzi, ad essere precisi, fanno semplicemente acqua da un po’ tutte le parti.

 

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