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Con la regia di Fausto Cabra, e attraverso la fantasia e le suggestioni del teatro, il romanzo più noto della scrittrice romana torna ad interrogare e commuovere. In scena al Teatro Vascello di Roma fino a domenica 19 febbraio. 

Elvira Sessa

Fonte foto Ufficio stampa

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Lo spettacolo sta per iniziare quando, davanti alla prima fila, si vede passare, veloce, una signora di mezza età che con una mano trascina un trolley, con l’altra regge uno smartphone. Ad un certo punto si ferma e sale sul palco che a quel punto si illumina. Un altoparlante annuncia lo sciopero dei trasporti. Si ferma sconsolata su una panchina ed apre le prime pagine di un librone. E “La Storia” comincia.
Vediamo il soldato tedesco Gunther (Francesco Sferrazza Papa) dall’andatura marziale e lo sguardo disperato e poi Ida (Franca Penone), il marito Alfio (Alberto Onofrietti) e via via gli altri personaggi, tutti interpretati con intensità, cura, maturità da soli tre attori, diretti da Fausto Cabra (consulenza di Marco Angelilli per i movimenti scenici). La scena è spoglia, una pedana al centro del palcoscenico, un tavolino, un materasso e qualche sedia. Gli effetti sonori (a cura di Mimosa Campironi) come canzoni e comunicati dell’epoca trasmessi via radio, e un complesso disegno luci (ideazione di Gianluca Breda e Giacomo Brambilla), portano indietro nel tempo, negli anni che vanno dal 1941 al 1947, nella Roma dei quartieri di San Lorenzo, Pietralata, Testaccio e poi sui binari della stazione Tiburtina dove, attraverso gli occhi terrorizzati di Ida e del bimbetto Useppe, si assiste alla deportazione degli ebrei nei carri bestiame. L’accurato gioco di luci aiuta ad introdursi nell’animo dei protagonisti, Ida e i figli Nino e il piccolo Useppe, nato quest’ultimo dalla violenza subìta da parte del soldato Gunther. Le luci disegnano strade, esprimono sentimenti, ruotano e incrociano le scene. Si fanno intermittenti e convulse durante i bombardamenti nel quartiere San Lorenzo, color sangue quando l’ebreo anarchico Carlo Vivaldi (alias Davide Segre) fracassa, a colpi di tacco, la testa di un soldato tedesco, ora scolpiscono ad occhio di bue il ventre di Ida marcando le viscere materne offese dallo stupro, ora si fanno blu, nei deliri di Davide Segre in preda alle droghe.

Fonte foto Ufficio stampa

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Il linguaggio è fedele al testo del romanzo. L’adattamento di Marco Archetti condensa brillantemente, con efficacia e chiarezza, il ricco e articolato capolavoro di Morante. Come osserva il regista: “Il romanzo stesso è protagonista, perché abbiamo voluto portare in scena proprio l’esperienza di una mente che legge. Abbiamo cioè provato a rendere tridimensionale la lettura, con la sua libertà e coesistenza di piani e punti di vista, con l’agilità di cambi spaziali e temporali.” La narrazione in terza persona non smorza il coinvolgimento dello spettatore, merito soprattutto della notevole maestrìa degli interpreti che rivelano tutta la loro duttilità nel modificare posture, timbro, accento, muovendosi sul palco con precisione ed incisività. Difficile non provare empatia per tutti i personaggi, anche per gli animali come il cagnolino Blitz, il pastore maremmano Bella e una gatta spaventata, fantasiosamente resi da borse e buste di iuta abilmente piegate e movimentate dagli attori. Uomini e animali, insignificanti per la grande storia, sono capaci di smuovere emozioni e farci affezionare a loro, forse proprio perché li vediamo e sentiamo in tutta la loro fragilità. I destini di uomini e animali ugualmente esposti alla cieca brutalità di bombe, mitra e dei più forti di turno, li sentiamo uniti anche nelle ultime parole pronunciate da Ida quando, prima di sparire in manicomio, prende a lagnarsi “con una voce bassissima, bestiale: non voleva più appartenere alla specie umana”.
Afferma ancora Cabra: “Al romanzo, scomodo ieri come oggi, si è rimproverato di non dare risposte. Non ci sono ideologie che possano indicare una via. Non c’è speranza di sciogliere l’enigma tra violenza e amore. L’unica salvezza possibile è proprio quella commozione, quella cruda compassione che lo stesso romanzo genera nel lettore. Un seme di umanità? Un sentimento primario, mai compiaciuto, che rivela – nonostante l’orrore – l’amore per la Vita stessa e per questa bistrattata umanità”.
E l’intento di commuovere e appassionarci possiamo confermare – a visione compiuta – è decisamente riuscito.

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