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La vita di Carmine, un figlio di Forcella, al centro del monologo interpretato da Daniele Vicorito che ne ripercorre gli anni dalla fanciullezza all’età adulta, tra dolori, sconfitte ma anche conquiste in grado di sovvertire un destino considerato (erroneamente) segnato per sempre.

di Francesco Niglio

Fonte foto Ufficio stampa

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Le mani doloranti per gli applausi e gli occhi lucidissimi. Il pubblico in sala a fine spettacolo si ritrova tutto così: è successo ad ogni rappresentazione.
Andato in scena per la prima volta al Trianon Viviani nell’ambito della rassegna dedicata alla Scuola Elementare del Teatro di Davide Iodice, ha successivamente conosciuto vari teatri della Campania e non solo, incantando anche Catania e il Fringe Festival, e il prossimo 25 febbraio alle ore 21  si appresta ad essere ospitato a Portici (Na) dal Teatro Don Peppe Diana (viale Tiziano 15).
“Il bambino invisibile” è la storia di Carmine Esposito, un ragazzino qualunque, cresciuto tra i vicoli in cui il sole fa capolino meno spesso dei problemi e dei guai. Usando le parole di Eduardo “case, palazzi, grattacieli, e in mezzo un dramma vecchio come il nostro”: a muovere ogni cosa la rabbia di chi si trova a subire i soprusi della società e ai quali risponde e reagisce come può, come gli capita. Rassegnato ad un destino poco generoso, vittima delle necessità, Carmine vive e sbaglia, ma tra le crepe dei suoi errori, passa la luce di un sogno, quello di fare l’attore.
Nel lavoro, nella sua capacità di esprimersi artisticamente, Carmine trova più che il riscatto, un nuovo equilibrio: la stessa struttura dello spettacolo, in un brillante gioco meta-teatrale è quella di un monologo che Carmine prepara per un provino, stufo delle domande sulla sua vita e sul suo passato, della morbosità di chi vuole mettergli etichette da rotocalco; un monologo con cui è lui stesso, senza orpelli, a raccontare la sua storia.
Il testo, scritto a quattro mani da Daniele Vicorito e Bruno Barone con grande padronanza di tempi e tecniche narrative, funziona in ogni suo passaggio, emoziona e lo spettatore, immerso e rapito, quasi fatica a staccarsi dal one-man show messo in piedi dallo stesso Vicorito, la cui prova d’attore è un crescendo di cambi voce, posture, atteggiamenti che accompagna magistralmente la trasformazione da bambino a uomo: è sufficiente una sua corsa per avvertire e riconoscere il tempo che passa.  Chapeau.
La scenografia è scarna, ad occupare il palco solo un piccolo trabattello in acciaio che diventa qualunque cosa e un sacco da boxe che diventa chiunque. Eppure è proprio l’essenzialità della messinscena a convincere contribuendo alla costruzione di una rappresentazione che ha il mordente e la forza narrativa del miglior teatro europeo.
La regia è di Bruno Barone, anche “la voce” dei provini. La squadra si completa con Gennaro Piccirillo che, dentro e fuori la finzione teatrale, è assistente e attrezzista di scena e con la grazia di chi è meticolosamente preciso, aiuta il monologo di Daniele (e Carmine) a prendere corpo nel migliore dei modi.

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Pretesto per dare voce a una critica sociale che s’intreccia con il dramma familiare e un con un rapporto padre-figlio sfilacciato e doloroso, “Il bambino invisibile” si rifà alla massima di Nietzsche: nella vita non si cambia – come si ritrova a constatare spesso Carmine -, si diventa ciò che si è, ma è un lavoro duro. Le folgoranti parole di Martin Eden, poi, lo aiutano a capire di cosa ha bisogno: “la bellezza, la cultura intellettuale e l’amore”.
Che poi, in un’ottica più universale, è ciò di cui avremmo probabilmente bisogno tutti, e che ricordato a mo’ di fiducioso monito attraverso una storia così, in un’epoca gentrificata in cui l’immagine e soprattutto la rappresentazione di Napoli e dei napoletani rischia quotidianamente di restare inchiodata a stereotipi e cliché mortificanti, può essere addirittura salvifico.

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