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La tragicomica epopea del cavaliere errante per antonomasia torna alla ribalta nell’adattamento di Francesco Niccolini, ricordandoci il valore dell’essere visionari e controcorrente.

di Alessandra Longo

Fonte foto Ufficio stampa

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Un’apertura in chiave moderna, con i rumori tipici di un pronto soccorso, catapulta il pubblico nel XVII secolo, sul letto di morte di Alonso Quijano.
In preda al delirio pestilenziale, il nobile inizia una lotta interiore fra le sue due anime durante la quale il moribondo Alonso inscena un duello con la spada contro Don Chisciotte, il cavaliere che si rifiuta di morire.
Alla morte stessa, il prode rivolge la richiesta di poter cercare una morte degna di un cavaliere. Il tristo mietitore, a tratti spaventato e commosso dalla richiesta, concede quindi al cavaliere 12 lune per cercare una morte onorevole.
Iniziano in questo modo le mirabolanti avventure di Don Chisciotte della Mancha, che affronterà inconcludenti battaglie contro statue in processioni, mulini a vento confusi con giganti da sconfiggere, o ancora greggi di pecore scambiati per temibili saraceni, il tutto muovendosi in sella al maestoso Ronzinante, animato con un realismo meravigliosamente espressivo e ludico da Biagio Iacovelli, mentre va alla ricerca della sua tanto amata Dulcinea, ignara del suo amore così come della sua esistenza.

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Liberamente ispirato al celebre romanzo di Cervantes, dunque, ecco Boni riuscire magistralmente a regalare un’interpretazione originale e suggestiva del personaggio frutto della penna dello scrittore spagnolo, catturandone l’essenza di tragicomica insanità mentale in una dimensione fantastica. A fungere da valore aggiunto, la scelta di farsi affiancare da una sempre perfetta, nel suo disincanto, Serra Yılmaz nel ruolo di un Sancho Panza dalla bonaria saggezza, e da un cast – formato da Marcello Prayer, Francesco Meoni, Pietro Faiella, Liliana Massari, Elena Nico – che anima alla perfezione il curato meccanismo drammaturgico, alternandosi in serrati scambi di battute che spostano con naturalezza il registro dal comico al drammatico. Una regia dinamica ‒ firmata a sei mani da Roberto Aldorasi, lo stesso Alessio Boni, e Marcello Prayer ‒ che sfrutta meravigliosamente i pochi elementi di scenografia disposti di volta in volta sul palco, mentre un bellissimo disegno luci enfatizza l’ambiente in cui tutto accade, segue l’avvicendarsi di personaggi grotteschi, trasportando la platea in un viaggio onirico tra i vaneggiamenti di un folle.
Folle, così viene definito dai più. Don Chisciotte, infatti, non nasce cavaliere errante, ma decide di diventarlo in seguito alla lettura appassionata di innumerevoli libri di cavalleria, dalla cui finzione non riesce più a distaccarsi tanto da diventare, gli stessi, nemici della sua lucidità, trascinando il nobiluomo in un vortice visionario.

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Ma cosa è esattamente la follia? L’attore protagonista, qui anche coautore, se lo chiede incessantemente e nel provare a trovare una risposta dà corpo a un alter-ego complesso e duplice: rappresentando, da un lato l’ideale cavalleresco di coraggio, onore e nobiltà d’animo; dall’altro, tratteggiando un uomo sognatore, che sceglie, impavido, di vedere la realtà attraverso le lenti apparentemente distorte della sua immaginazione.
Scrive in merito Boni: “Don Chisciotte va oltre la consapevolezza della morte e combatte per un ideale etico, eroico. […] È forse folle tutto ciò? È meglio vivere a testa bassa, inseriti in un contesto che ci precede e ci forma, in una rete di regole pre-determinate che, a loro volta, ci determinano? Gli uomini che, nel corso dei secoli, hanno osato svincolarsi da questa rete – avvalendosi del sogno, della fantasia, dell’immaginazione – sono stati spesso considerati “pazzi”. Salvo poi venir riabilitati dalla Storia stessa.”
Quella Storia che ancora oggi, o meglio, soprattutto oggi, sembra sacrificare chi si batte per la difesa di valori sempiterni, di ideali irrinunciabili spesso invisibili ai più, eppure in grado di sollevare l’animo dalla grevità delle cose più terrene, concrete, che precludono illusioni, utopie, speranze. Le stesse da cui, invece, dovremmo lasciarci guidare ben oltre il tempo di uno spettacolo da applausi.

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