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I fili dei legami si riannodano nel monolgo di e con Marco Paolini incentrato sull’evoluzione e l’ecologia, a partire da un surreale raduno di famiglia che mette a confronto generazioni lontane.

di Elvira Sessa

Foto di Gianluca Moretto

Foto di Gianluca Moretto

È stato in cartellone dal 14 al 19 marzo al Teatro Vascello di Roma, e ora proseguirà la sua tournée nel resto d’Italia, il coinvolgente monologo di Marco Paolini dal titolo “Antenati-the grave party”, legato al progetto televisivo “La Fabbrica del Mondo”.
Una insolita “festa dei morti” di famiglia: un incontro di 4.000 generazioni che risalgono a 200.000 anni fa, per un totale di 8.000 coppie di nonni, circondati dai millennials, chiamati a dare consiglio sull’avvenire della specie umana a rischio di estinzione a causa di mutamenti climatici di origine antropica.
L’opera, scritta da Paolini e prodotta da Michela Signori-Jolefilm, nasce dall’esperienza della pandemia che ha portato l’autore a ricercare le tombe dei nonni e ad interrogarsi, attraverso la lettura de “L’Origine delle specie” di Darwin, sui progenitori della specie umana.
Con precisione e destrezza, l’attore e drammaturgo bellunese si muove sulla scena occupata solo da un leggìo e uno sgabello e, per quasi due ore ininterrotte (105’), cattura il pubblico con una accurata e appassionata narrazione su temi scientifici come il cambiamento climatico e l’evoluzione della specie e delle tecnologie, efficacemente calati nel linguaggio del teatro, fatto di immaginazione e leggerezza.

Foto di Gianluca Moretto

Foto di Gianluca Moretto

Il ritmo è serrato, incalzante. Vi sono momenti drammatici che generano silenzio e tensione in platea, come quello in cui ricorda le bare delle vittime del Covid-19 trasportate a Bergamo dai convogli dell’esercito, intervallati da divagazioni comiche e ironiche – anche in dialetto veneto – che restituiscono calore e vivacità al racconto, suscitando risate, sorrisi e applausi estemporanei.
Giochi di luce (a cura di Michele Mescalchin) e musiche, dalle sonorità gitane al pop (opera di Fabio Barovero), accompagnano per brevi e rari momenti la voce del narratore, che resta l’intensa e vibrante protagonista della pièce.
Incisivo è il messaggio che lancia Paolini: ognuno di noi, nel suo genoma, ha tracce dei suoi avi, è il proseguimento di una catena iniziata migliaia di anni prima. Ognuno è frutto di legami, di storie passate, e a sua volta ha una responsabilità per le generazioni future. Prima che algoritmi e “dati” della rete di Internet, siamo fili di reti affettive, come urla Paolini con slancio e commozione: “Nessuno di noi è solo uno, nessuno è uno solo uno, io sono fili e non dati, fili, fili…”
Parole che prendono forma nel quadro finale, quando l’attore si carica sulla schiena uno sgabello di legno, evocando la cura del nipote che prende su di sé il corpo del nonno capostipite, morto. Un gesto potente nella sua semplicità, pieno di tenerezza e fiducia nel futuro dell’uomo.

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